Giarre, si riaprono porte del carcere per Nino Marano I 49 anni in cella e la bomba esplosa nell’aula bunker

Ancora un giro di chiave. Il titolo del libro che parla di lui sembra, adesso, una profezia. Ancora un giro di chiave per Nino Marano, noto come il killer delle carceri, 74 anni dei quali 49 passati in prigione. Arrestato per l’ennesima volta ieri mattina dai carabinieri di Giarre con addosso una pistola ben oliata nella piccola tracolla che indossava: un colpo in canna, caricatore pieno, matricola abrasa. Pronta all’uso. Marano, nato a Mascali e residente in un quartiere popolare di Riposto, era uscito dal carcere quattro anni fa ed era tornato a casa sua. Erano le 9 di venerdì mattina, sulla strada che da Santa Venerina porta a Giarre, quando il comandante dei carabinieri giarresi, il capitano Luca Leccese, si è accorto che, in quella macchina che procedeva a grande velocità verso la cittadina ionica, c’era qualcosa di strano. Un anziano pregiudicato (anche per associazione mafiosa) alla guida, e Marano sul sedile del passeggero, col borsello ben stretto addosso.

Un breve inseguimento, poi il controllo «volante» e la scoperta dell’arma. Non l’unica, tra l’altro. Marano avrebbe avuto con sé anche un coltello a serramanico con lama di dieci centimetri. Un altro oggetto che non avrebbe dovuto detenere. Le accuse sono di porto abusivo di arma clandestina e arma bianca. Per lui si sono riaperte le porte di un penitenziario, stavolta quello di piazza Lanza, nell’attesa che lunedì si svolga l’udienza di convalida del fermo. Il reato si aggiunge all’elenco di tutti gli altri commessi e per i quali la pena scontata si aggira intorno al mezzo secolo: dal 31 gennaio 1965, quasi ininterrottamente dietro le sbarre. La giornalista Rai Emma D’Aquino, catanese, ha di recente pubblicato (a febbraio 2019) Ancora un giro di chiave, il libro che racconta la sua storia personale e carceraria.

Tutto inizia con un furto di melanzane e peperoni. E di una bicicletta che, secondo quanto riportato nella presentazione del libro, Marano avrebbe raccontato di avere preso «per andare a lavorare come manovale, non l’avessi mai fatto. Ci sono rimasto per un’eternità. La cella, la coabitazione coatta mi hanno trasformato. Dietro quelle sbarre le mie mani si sono macchiate di sangue e io sono diventato un assassino». Due omicidi compiuti, altrettanti tentati, altrettanti ergastoli. Nel 1988, nell’aula bunker delle Vallette, a Torino, Marano fece esplodere una piccola bomba artigianale, contenuta dentro a un pacco di sigarette (secondo le cronache dell’epoca), con l’obiettivo di colpire un altro degli imputati nel maxi-processo contro il clan dei Catanesi: Nuccio Miano (fratello del più noto Jimmy, braccio destro del Tebano Angelo Epaminonda), che nel 1987 aveva tentato di ucciderlo sparandogli in un’aula di tribunale.

L’altro uomo che era in macchina con lui, anziano, è stato condannato anche per 416 bis. I due, però, non erano mai stati visti insieme. Per gli investigatori che si stanno occupando del suo nuovo arresto, occorre ora capire cosa fosse andato a fare, alle nove del mattino, Nino Marano a Santa Venerina con una pistola carica. Difficilmente una rapina, ritengono gli inquirenti. È più probabile che, invece, ci fosse in ballo un regolamento di conti di qualche genere. Da cui difendersi o da compiere. Secondo quanto appreso da questa testata, il 74enne non avrebbe detto nulla ai militari che lo hanno bloccato. All’inizio della prossima settimana, sarà il giudice a decidere se le porte del carcere si riapriranno o se dovranno rimanere chiuse. Di nuovo.


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