Gli uomini d’onore ne parlano sottovoce, intercettati dentro la sala colloqui di un carcere o per la città. Il movente potrebbe essere collegato al suo intervento per proteggere un uomo accusato di aver truffato i boss. Che intanto è morto la scorsa estate
Dainotti ucciso per aver difeso l’ex gestore di un bar? Omicidio ancora senza killer. «Una sorpresa per tutti»
«L’hai sentito quello che è successo?». È il 25 maggio del 2017 e la moglie del boss Paolo Calcagno, in carcere dal 2015 dopo il blitz Panta Rei, racconta al marito quanto accaduto solo tre giorni prima a Palermo, il 22 maggio. L’uccisione, in pieno giorno, di Giuseppe Dainotti, esponente del mandamento mafioso di Porta Nuova, freddato a colpi di pistola mentre attraversava in bicicletta via D’Ossuna. Graziato dalla Cassazione, era in libertà da circa un anno, dopo oltre trenta trascorsi in carcere (grazie alla conversione dell’ergastolo mediante la legge Carotti del 2000), dove era finito per il colpo miliardario al Monte dei Pegni di via Calvi. Ma anche per l’omicidio di Antonino Rizzuto, caso di lupara bianca del 1989. Non è l’unico padrino che riesce, quasi a sorpresa, a riassaporare la libertà. Gli anni scorsi infatti sono stati segnati dal ritorno in circolazione di altri nomi pesanti, come quello di Francesco Mulè, esponente della famiglia di Ballarò, che ha scontato 22 anni per tre omicidi commessi durante la guerra di mafia degli anni ’80.
«Ci siamo andati…non dovevo?» chiede adesso la moglie al marito seduto davanti a lei, nella sala colloqui del Pagliarelli. Lei e i famigliari, infatti, dopo aver saputo del delitto, sono andati a casa della famiglia della vittima, per fare le condoglianze al fratello. «Mi sono informata prima se c’erano tutti, che dovevo fare?». «Il fratello ti ha riconosciuta?», chiede Calcagno, mentre lei annuisce: «Mi ha detto che se ci fossi stato tu (intenso, per gli inquirenti, in libertà a reggere il mandamento) Giuseppe sarebbe stato sempre in contatto con te… “Se c’era lui si stava tutto il tempo qua”». In quella stessa casa, prima di lei, c’erano già stati anche i fratelli Di Giovanni, Tommaso «quello che gli piace Gianni Celeste» e Gregorio, «sorriso», dice parlando in codice. E, parlando in maniera ancora più criptica, racconta al marito che proprio Tommaso Di Giovanni, che questa volta definisce «quello dei pacchi postali», aveva preso questa decisione perché aveva appreso «una cosa brutta», e aveva disposto che altre due persone facessero qualcosa insieme.
Il marito annuisce di rimando, vorrebbe saperne di più, ma la donna non sa nulla di più. «Tutti…tutti siamo rimasti sorpresi – dice allora Calcagno -. Cose che fanno solo male», commenta infine lui. La donna suggerisce a questo punto al marito che forse farebbe bene a lasciare Palermo, ma il marito è contrario e categorico. Perché andare via? La donna temeva qualcosa per sé o la sua famiglia? E chi è che, all’epoca, le avrebbe in tal caso fatto così paura, i Di Giovanni? È proprio su di loro, in effetti, che sin da subito si concentrano i dubbi di un possibile coinvolgimento nell’omicidio Dainotti. Data la recente rivalità sorta fra loro. «Si è immischiato uno…e questo lo hanno ammazzato, a Peppino Dainotti. È stato un anno fuori e lo hanno ammazzato al Papireto, due settimane prima si era immischiato per prenderci le difese a questo». A parlare così, il pomeriggio del sei novembre 2017, a sei mesi dal delitto, è Rubens D’Agostino, u Barrichello, coinvolto nel recente blitz di pochi giorni fa. Nel suo racconto, fatto in auto insieme alla madre, l’uomo parla di Dainotti e del fatto che avesse deciso di prendere le difese, in qualità di uomo d’onore, del gestore del bar Manila di via Galilei, a cui i Di Giovanni avrebbero chiesto i soldi del canone d’affitto.
Un bar che faceva parte dei beni, poi finiti sotto sequestro, dello stesso D’Agostino che, finito in galera nel 2012, lo aveva affidato all’uomo che sarebbe poi divenuto vittima delle sue pressioni e minacce, unite a quelle di quelle di Tommaso Di Giovanni. Uscito di prigione, infatti, secondo D’Agostino nelle casse ci sarebbero stati degli ammanchi di denaro, il nuovo proprietario insomma non avrebbe rispettato gli accordi verbali presi con la società riconducibile al boss «e invece di fronteggiare il pagamento dilazionato in 60 rate mensili per l’acquisto dell’attività commerciale, intascava l’affitto della gestione della stessa che era stata data in conduzione» a un terzo soggetto, cui l’attività era stata in pratica ceduta all’insaputa dello stesso boss ancora detenuto. E che, a sua volta, «invece di pagare l’affitto della gestione e delle mura del bar, ammontante a 1.500,00 euro mensili, al curatore giudiziario, consegnava le somme ai precedenti proprietari (padre e figlio), i quali se ne appropriavano arbitrariamente senza consegnarli all’effettivo proprietario, D’Agostino». «Si fottevano i soldi ogni mese», dice adirato il boss. Ma cosa c’entra tutto questo con Giuseppe Dainotti e il suo omicidio?
Dopo questa scoperta, D’Agostino e Tommaso Di Giovanni avrebbero picchiato quello che secondo loro gli aveva sostanzialmente rubato i soldi. La vittima, a sua volta, potrebbe aver cercato dal canto suo un ulteriore supporto mafioso qualificato, rivolgendosi proprio a Dainotti per essere in qualche modo protetto. Un’ingerenza che avrebbe potuto far storcere il naso ai boss di Porta Nuova. «Ma c’entra qualcosa questo gestore nel discorso dell’omicidio…?», domanda la madre. Ma il figlio, che insieme a Tommaso Di Giovanni sembra aver poi riscosso personalmente i suoi soldi («ogni mese mi paga l’affitto, già mi ha dato qualche cinquemila euro»), la rassicura: «No no, se no l’ammazzavano, che dici… Comunque lui pure abbuscò, minchia i vastunate». Particolari interessanti, e che potrebbero assumere anche un certo peso alla luce del destino cui poi è andato incontro lo stesso Dainotti. Ma è lo stesso D’Agostino che nega con forza che possano essere stati questi contrasti la base del suo omicidio. Che resta, a quasi due anni, ancora senza colpevoli ufficiali. Nei pochi frame immortalati dall’unica telecamera che inquadra il luogo del delitto si vedrebbe uno scooter Sh, che si allontana dalla via D’Ossuna verso la via Papireto, e una scarpa da tennis, presumibilmente di uno dei killer.
L’ex gestore del bar di via Galilei, intanto, non c’è più, scomparso prematuramente la scorsa estate a causa di un malore improvviso. Restano i familiari che, sulla vicenda, «non sanno cosa dire». «Abbiamo letto qualcosa, un po’ in maniera indiretta anche, ma niente di più». In ogni caso assicurano che trovarlo in giro a Palermo, coinvolto in altre attività, sarebbe stato complesso, perché dedito da tempo ad altri affari a Bologna. «Non stava più tanto qua…e a giugno è andato via».