La strage di Capaci e i bambini di allora «Un lutto che ci appartiene da vent’anni»

Vent’’anni. Da quando sono capace di pensare con la mia testa e capire cosa vuol dire mafia, strage mafiosa ed essere una siciliana onesta il 23 maggio non è mai stato un giorno qualsiasi, un anniversario come altri. È stato un giorno di lutto, di un dolore vivo molto più di quello che può provocare un semplice ricordo, un fatto che ho vissuto ma che ho capito solo attraverso il racconto. Un giorno di lacrime e rabbia, ma anche di coraggio, forza e vicinanza con tutti i ragazzi per cui quel giorno ha lo stesso significato. Ed ho la fortuna di conoscerne molti di giovani così.

Quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro sono stati fatti saltare in aria lungo l’’autostrada per Palermo nei pressi dello svincolo per Capaci avevo solo 11 anni. Ero a casa della mia amica del cuore dell’’epoca a festeggiare il suo compleanno. Non capii. L’’unica cosa che colsi, da bambina quale ero, era che doveva essere successa una cosa molto grave. Doveva essere gravissima se si accendeva la tv per vedere il telegiornale nel bel mezzo di una festa. Fui consapevole di quella gravità solo molti anni dopo. E da allora quella data non fu più, nella mia testa e nel mio cuore, il giorno del compleanno di un’’amica. Quello è il giorno in cui ricorre l’’anniversario della scomparsa di persone che sono morte per la mia terra, per il mio futuro, per me.

Quando avevo 11 anni non sapevo neanche chi fosse Giovanni Falcone. L’’ho conosciuto parecchio tempo dopo, per il suo lavoro, le sue idee e le sue analisi sulla mafia. Per questo lo ricordo e gli sono grata. Grazie a lui nessuno ha potuto prendere in giro me e i giovani della mia generazione dicendoci che la mafia non esiste. Grazie a lui abbiamo sempre avuto chiaro contro cosa lottare. La sua faccia, il suo sguardo, il suo sorriso sono diventati la faccia, lo sguardo e il sorriso di uno di famiglia. Ricordo quel sorriso mentre risponde alle domande di una giornalista francese, mentre parla di mafia, di paura. Quel sorriso che mi ha sorpreso, che mi ha sempre colpito e fatto pensare che era speciale.

Chi l’’ha ucciso ci ha tolto qualcosa. E quel lutto ci appartiene. Per questo non potrei mai, per esempio, sposarmi il 23 maggio. Né il 19 luglio. Ma chiamerò mio figlio con il nome di un magistrato. Come si fa con i papà, con gli uomini che ti insegnano qualcosa sulla vita che ti resta dentro per sempre e ai quali sarai grato in eterno. Falcone mi ha insegnato cosa vuol dire lottare per un futuro migliore, a non essere indifferente. Cosa vuol dire essere siciliana ed esserne orgogliosa. E a non arrendermi. Neanche quando vedo un bambino spacciare invece di giocare, o un ragazzo che pensa di trovare nella malavita un’’alternativa distruggendo la serenità di genitori onesti. Neanche quando appare chiaro che il confine tra mafia e politica è sottile. Falcone mi ha insegnato che io posso fare la mia parte e che ci sono uomini giusti, che non si piegano, uomini come lui per cui io oggi continuo a restare e a lottare.


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Quando nel 1992 il giudice Giovanni Falcone fu ucciso dalla mafia insieme alla moglie e a tre agenti della scorta, i giornalisti della redazione di CTzen frequentavano asilo ed elementari ma quel 23 maggio di vent'anni fa ha cambiato e influenzato la vita di quei bambini e di tanti altri come loro, oggi giovani adulti. Il perché quella data è così importante lo racconta in questo intervento la redattrice più anziana del giornale, allora undicenne

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