Incontri brevi, mai nello stesso luogo, e il divieto assoluto di portare con sé cellulari. Appuntamenti per strada o appoggiandosi ad attività commerciali conniventi, consapevoli di chi si riuniva e perché. «Ci siamo visti là dentro, mentre lavoravano il marmo»
Mafia, cautele e modus operandi della nuova cupola «Quando sei a lato a me lo devi buttare il telefono»
Incontri rigorosamente all’aperto, per strada, raramente in locali chiusi che comunque non erano mai due volte gli stessi. Tutto sempre senza rimanere mai fermi in un punto solo a chiacchierare, malgrado la fugacità dell’incontro: anche se per pochi minuti ci si metteva a camminare, per dileguarsi poi in direzioni diverse. E se per raggiungere il posto concordato era necessario utilizzare un mezzo, anche questo non era quasi mai due volte lo stesso. Vietate le comunicazioni via telefono, così come portare con sé agli appuntamenti apparecchi di qualunque sorta. C’era chi, come Settimo Mineo – per i magistrati il reggente di Pagliarelli e l’erede di Riina -, non aveva neppure un cellulare proprio. Per organizzare gli incontri, tutte le informazioni venivano veicolate da intermediari. Molti dei luoghi prescelti erano negozi, uffici o spazi privati che, all’occorrenza, venivano messi istantaneamente a disposizione degli affiliati. È un vero e proprio «codice di condotta», come lo definiscono gli inquirenti nelle carte dell’inchiesta, quello messo a punto da boss e padrini della nuova cupola, sgominata dal blitz di pochi giorni fa.
Tutte cautele che non sono bastate ad allontanare sospetti e indagini mirate, attraverso le quali è stato possibile ricostruire la rete di rapporti e frequentazioni dei presunti affiliati all’organizzazione criminale. Riscontri che hanno restituito l’efficienza e la compattezza dell’intera consorteria. «Minchia di nuovo là ci dobbiamo andare a mettere?», diceva due anni fa lo stesso Mineo, senza sapere di essere intercettato, rivolgendosi a un affiliato della famiglia di Pagliarelli che aveva suggerito un luogo già utilizzato in un precedente incontro. «Ma hai il telefono?», chiedeva con tono di rimprovero, invece, a un altro, «perché non lo butti?…Quando sei a lato a me lo devi buttare il telefono!», non esistono mezze misure per Mineo. Eppure, la caratura del suo profilo criminale – già nota alle forze dell’ordine – e la sua fitta rete di rapporti con moltissimi esponenti mafiosi di tutte le zone hanno portato gli inquirenti a concentrare buona parte delle attenzioni proprio su di lui. Sull’arzillo 80enne in pensione che ogni tanto passeggiava davanti alla gioielleria del nipote in corso Tukory, dispensando sorrisi e saluti a tutti i commercianti della zona, la maggior parte ignara – forse – del passato criminale di Mineo.
Pedinato per parecchio tempo, il presunto capo di Cosa nostra rivela senza saperlo molto più di quanto non desse a vedere. Il cuore dei suoi spostamenti e incontri è il Villaggio Santa Rosalia, il quartiere alle spalle di viale delle Scienze, che lo divide dall’altra sponda, quella dove sorge la cittadella universitaria. Tra i luoghi d’incontro c’è, ad esempio, un’officina di via Parlavecchio. Mentre un altro, spostandosi poco fuori zona, è all’interno di un’attività di onoranze funebri di corso Calatafimi, dove lui e molti altri si sarebbero incontrati, in base ai riscontri investigativi, il 31 ottobre di due anni fa. Mentre altri incontri sarebbero avvenuti addirittura dentro al cimitero Santo Spirito, in piazza Sant’Orsola, e nei locali di un meccanico di Villabate: «Mi sono fatto due incontri, dentro da quello», dice infatti Francesco Colletti – presunto capo del mandamento della zona – a Filippo Cusimano – presunto affiliato alla famiglia. Un altro appuntamento, invece, lo avrebbero avuto dentro al bottega di un marmista, sempre nelle vicinanze. «Con Salvino (Salvo Sorrentino, presunto capo della famiglia di Villaggio Santa Rosalia…ndr) mi sono visto là dentro mentre che lavoravano il marmo», continua Colletti, «dentro la cosa funebre», completa il sodale.
Luoghi, la maggior parte, nelle disponibilità degli esponenti mafiosi di Pagliarelli, secondo gli inquirenti. Cioè, i cui proprietari erano probabilmente in qualche modo consapevoli di chi fossero le persone che vi si riunivano e perché. Rintracciati, però, malgrado le numerose cautele prese dagli affiliati e dalle «bonifiche», per citare le carte, dei mezzi usati da ciascuno, che venivano cambiati con regolarità, intestati a terze persone e custoditi all’interno di garage o in luoghi non direttamente riconducibili a qualcuno delle famiglie palermitane. Per non parlare, poi, delle costanti ricerche di microspie eventualmente installate dagli investigatori. Ma è proprio da loro, da chi adesso dovrà rispondere di aver fatto parte del tentativo di riorganizzazione della nuova cupola mafiosa, che è arrivata in maniera limpida e diretta uno dei dettagli più importanti dell’intera vicenda: la riunione del 29 maggio 2018, quella per intenderci della Commissione provinciale, che non riusciva a riunirsi dall’arresto di Riina nel ’93.
«Si è fatta comunque una bella cosa, molto seria, con bella gente…Bella! Grande! Gente di paese, gente vecchi, gente di ovunque», dice Colletti intercettato. Non è un incontro come gli altri, quello di cui parla, non una riunione come le solite. Ma a sentire il presunto boss sarebbe stata fondamentale per «costituire un organo centrale con funzioni di direzione sulle attività criminali di rilievo intermandamentale, avente capacità di dirimere i contrasti tra i componenti delle varie articolazioni, potestà sanzionatoria, nonché l’autorità per scegliere i vertici delle famiglie mafiose, come riferito da Tommaso Buscetta». Un’organizzazione che poggia su solide vecchie regole, sempre le stesse: «Nessuno è autorizzato a parlare dentro la casa degli altri», perché ognuna ha il suo referente, che si assume le responsabilità dei suoi; vietato anche avere «ingazzamenti», cioè relazioni extraconiugali. «Proprio è chiaro, mettere fuori a chiunque con sti discorsi, capito?».