Mafia, Giovanni Tizian a Catania «Anche sotto scorta continuo a raccontare»

Giovanni Tizian ha 29 anni e fa il giornalista precario alla Gazzetta di Modena. La sua storia ve l’abbiamo già raccontata perché da fine dicembre dello scorso anno vive sotto scorta. La ragione è tristemente semplice: Giovanni ha subito delle minacce perché scrive di mafia e con le sue inchieste pesta i piedi alla criminalità organizzata radicata nel modenese e in Emilia Romagna. Della denuncia di infiltrazioni mafiose e traffici illeciti al Nord ne ha fatto una professione. Ma ad avere a che fare con l’efferatezza della malavita, Giovanni ha cominciato troppo presto: nel 1989 suo padre, Peppe Tizian, funzionario di banca, è stato ammazzato dalla ‘ndrangheta a colpi di lupara a Bovalino, nella Locride, perché troppo onesto: non era disposto a piegarsi alle richieste dei criminali della zona.

Militante e co-fondatore, nel 2005, dell’associazione antimafia daSud Onlus, il giovane cronista di origini calabresi collabora anche con Linkiesta e Narcomafie. Nel novembre 2011 Giovanni Tizian ha pubblicato anche un libro, Gotica, ’ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea: un volume-inchiesta che denuncia i sodalizi economici tra mafia e impresa nel Settentrione. Un viaggio dalla Sicilia all’Emila Romagna per far emergere come la criminalità organizzata investe e ricicla i soldi sporchi, ma che parla anche di voto di scambio, corruzione elettorale, acquisizione societarie tramite usura, pizzo camuffato da servizi alle imprese, droga, incendi e minacce.

Oggi alle 17.30 Giovanni sarà a Catania dove presenterà il suo libro nel corso di un incontro organizzato da Libera e dalla Fondazione Fava, ospite dalla facoltà di Scienze politiche. In un’intervista a Ctzen racconta di sé, della vita sotto scorta e del suo lavoro di giornalista, ma anche della poca consapevolezza dei traffici mafiosi al Nord e di Catania, «coperta da uno strato d’ombra che oscura tutto e che non fa vedere quali sono i suoi veri affari. Ma che sta cambiando, grazie anche alla memoria e agli insegnamenti di Pippo Fava».

Precario a Modena per raccontare di mafia: la tua vicenda sembra quella di chi vive ancora a Sud. Come è iniziato il tuo mestiere di giornalista?
«Ho cominciato alla fine del 2005. Tutto è nato dalla voglia di far emergere le vicende poco raccontate. Sono laureato in sociologia e mi appassionava anche l’aspetto della ricerca sociologica applicata al giornalismo. E poi da una forte passione trasformata in professione, che mi ha fatto capire che è questo quello che voglio fare. Nonostante i sacrifici».

E quando invece hai deciso di raccontare il non-detto e parlare della mafia al Nord?
«Praticamente subito. Mi interessavo già molto al fenomeno, leggevo e mi informavo. Ha influito sicuramente anche tutto quello che ho visto e vissuto in Calabria, che mi ha permesso di analizzare da questo punto di vista anche la realtà modenese ed emiliana. Ho fatto dei collegamenti che hanno portato poi a delle inchieste giornalistiche, ma anche di guardare le cose con un occhio diverso, cercando di dire cose nuove, come già molti colleghi stanno facendo. Ormai la criminalità organizzata non è solo una questione che riguarda il Sud, ma è una realtà ben radicata anche nel Settentrione. Anche se al Nord sono in molti a non volerlo ammettere».

L’iniziativa «Io mi chiamo Giovanni Tizian» va avanti ormai da un mese. Sei stato in molte città d’Italia e sei diventato un personaggio pubblico.
«Ci tengo a dire che lo scopo della campagna non è parlare di me e della mia storia. Mi importa poco di essere un personaggio pubblico. Ma serve a diffondere un messaggio affinché chi aderisce all’iniziativa si impegni a rifiutare il compromesso mafioso con idee ed azioni concrete, proponendo politiche di contrasto alla criminalità organizzata. Ad esempio, per combattere le infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici, il comune di Lamezia Terme ha approvato una delibera che prevede, tra le altre cose, di rescindere il contratto anche se l’informativa su infiltrazioni mafiose arriva a lavori già iniziati. I buoni esempi al Sud ci sono. Il Nord è sordo, ma le cose positive pian piano attecchiscono anche lì. E’ in cose come questa che dovremmo imparare ad essere un Paese più unito».

Quanto è cambiata la tua vita da quando sei sotto scorta?
«E’ cambiata la quotidianità. Mi devo coordinare con la scorta per tutti gli spostamenti che faccio. Nel mio lavoro di giornalista non è semplice perché devo organizzare i tempi e ogni imprevisto diventa un problema. Anche lo spostamento di un’ intervista o di un appuntamento di lavoro. E poi è cambiata anche la vita in famiglia e quella di coppia, che ne risente. Al cinema o al ristorante, ad esempio, andiamo sempre accompagnati. Per questo adesso tendiamo ad uscire di meno e passiamo le serata a casa. Poco male, almeno risparmiamo (ride)».

Il tuo libro racconta dei traffici illeciti del Nord, ma qui a Sud, c’è una coscienza antimafia differente che ha portato Confindustria Sicilia a espellere chi paga il pizzo. Quanto c’è da fare però al Sud lo sappiamo tutti. Secondo te verso che direzione si va: il Sud che prende coscienza di sé e somiglia al Nord ricco, o il Nord ricco che sta diventando sempre più simile al Sud?
«Leonardo Sciascia parlava di linea della palma, che “tutta l’Italia sta diventando Sicilia”. La mafia sale dal Sud e arriva fino al Nord, ma in molte regioni settentrionali si discute ancora se la criminalità organizzata esista o meno, anche se è comprovato che è un fenomeno radicato. E’ un paradosso. Il Meridione è in mano alle mafie, ma c’è più consapevolezza e si lotta di più. Ci sono tante associazioni antimafia che operano sul territorio, che il Nord prende come esempio ma che lì faticano a radicarsi. Forse perché al Sud si è sempre sofferto di più questo fenomeno e allora, sopratutto dopo le stragi degli anni ’90, la gente  si è attrezzata. Quando parlo con gli imprenditori meridionali mi parlano e mi raccontano della mafia, mentre al Nord faticano di più a parlare, o addirittura non parlano. Ma da questo punto di vista l’Italia è tutta uguale e la gente del Sud lo ha capito».

Catania, una città che ha visto nascere il suo movimento antimafia grazie anche alla figura di un giornalista, Pippo Fava. Quanto c’è nei tuoi articoli, e nelle tue ricerche al Nord, della mafia e dell’imprenditoria collusa che sta sotto l’Etna?
«C’è molto. Alcune mie inchieste hanno interessato un imprenditore catanese che investiva in gioco d’azzardo legale. Aveva una società a Modena che è stata posta sotto sequestro perché legata ad esponenti del clan Santapaola e dei Casalesi. Un’attività che univa le due organizzazioni, Cosa Nostra e camorra, e i cui interessi arrivavano fino al Nord. A Catania, tra gli imprenditori, attività di questo tipo sono diffusissime».

Catania è ancora famosa come la città buia degli anni ’80, con i morti ammazzati e brulicante di traffici nascosti che fanno fatica ad emergere in superficie. E’ cambiata rispetto agli anni neri dell’omicidio Fava o è ancora la stessa?
«Catania è sempre stata così, coperta da uno strato d’ombra che oscura tutto e che non fa vedere quali sono i veri affari. Ma la città sta cambiando, i segnali ci sono. Primo tra tutti il nuovo procuratore Giovanni Salvi che per la prima volta si sta impegnando a rompere le scatole sul serio alla criminalità organizzata. E che per la prima volta ha presenziato alla commemorazione sotto alla lapide di Giuseppe Fava. La mafia lancia messaggi negativi, per combatterla c’è bisogno di prese di posizione come questa. L’esempio? A distanza di quasi trent’anni c’è ancora chi tenta di infangare la figura di Pippo Fava. Il gesto di Salvi è stato un messaggio forte per difendere la sua memoria e tutto quello che ci ha insegnato».


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