Sandro Ruotolo, giornalista di Annozero, discute di editti bulgari, censura e intercettazioni telefoniche. Che mettono in serio pericolo la libertà d'informazione in Italia
Cani da guardia, cani da guinzaglio
Uno degli argomenti più dibattuti al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia è stato il rapporto tra l’informazione e la politica. Il decreto contro le intercettazioni, l’epurazione di alcuni conduttori dal TG di Rai Uno ad opera di Augusto Minzolini, Raiperunanotte, gli editoriali di Vittorio Feltri, i processi del Presidente del Consiglio, la mafia: di tutto questo ha parlato Sandro Ruotolo, celebre volto della trasmissione Annozero e collega di vecchia data di Michele Santoro. Step1 lo ha intervistato.
Cosa significa essere un giornalista libero in questo momento, in Italia?
«Significa rischiare, incontrare mille difficoltà. Ma più che libero, direi con la schiena dritta. Perché libero… Be’, tutti i giornalisti dovrebbero essere liberi, però è sempre più difficile».
Perché “dovrebbero”? Qual è l’attuale situazione della libertà di stampa? E quella dell’informazione? Sono due cose diverse…
«È quasi inutile che ce lo diciamo: siamo in una situazione di semilibertà. Lo dice anche Freedom House. Siamo semiliberi per il conflitto di interessi. L’ultima testimonianza è la famosa inchiesta della magistratura di Trani, dove non c’è solo un attacco all’informazione, ma c’è l’uso di un’autorità terza per attaccarla. Le autorità di garanzia non garantiscono perché hanno un rapporto diretto con la politica. I commissari vengono nominati dai politici. Nella vicenda di Trani, addirittura, c’è questo commissario messo lì da Silvio Berlusconi che fa di tutto per impedirci di andare in onda. E poi non ci riesce, per fortuna. Questa è la situazione. E scatta molto anche la paura. C’è la paura di perdere il posto di lavoro, di non scrivere più, di non andare più in onda. Penso anche alla vicenda del TG1 (cfr. intervista di Step1 a Tiziana Ferrario, nda)».
Annozero, dopo tutte le vicissitudini che ha superato, dopo lo stop per l’esasperazione della par condicio, continua ad andare in onda. Vi sentite una resistenza mediatica?
«Noi siamo dei professionisti e, quando riteniamo che una cosa non sia giusta, combattiamo. Noi dobbiamo tutto al nostro pubblico, lavoriamo per il nostro pubblico. Consideriamo il nostro pubblico il nostro editore. Poi ci scontriamo con il direttore generale, il direttore di rete, il consiglio di amministrazione… Però, quando una cosa non è giusta non possiamo farla passare. Non è resistenza, è rispetto per il nostro pubblico. Contro le porcate bisogna reagire».
Voi avete reagito con Raiperunanotte, un evento sul web organizzato dalla televisione. Vi aspettavate questo successo? E qual era il vostro obiettivo? L’aver riportato in tv, anche se tramite lo schermo di un computer, un personaggio come Daniele Luttazzi, allontanato anni fa, non è stata una scelta casuale…
«Detto francamente: sulla quantità non ci aspettavamo questi risultati. Noi avevamo già vissuto l’esperienza dell’epurazione, nel 2002, con l’editto bulgaro. Le tecnologie nuove, l’affermazione della televisione satellitare, la diffusione di internet e, soprattutto, della banda larga ci danno la possibilità di vedere una diretta in tempo reale tramite un computer. La nostra è stata una dimostrazione contro la censura. D’altra parte, anche in Iran riescono a vincerla. È stato un evento importante, perché ci dice che un nuovo editto bulgaro sarebbe molto più difficile, perché abbiamo dei mezzi che ci permettono di superare l’oscuramento della televisione generalista. Il programma è stato visto anche nelle piazze, abbiamo sommato la manifestazione di protesta e l’evento televisivo».
Raiperunanotte è stato commentato in diretta live su social network come twitter e friendfeed. L’opinione della maggior parte degli utenti web era sintetizzabile nella sensazione di assistere ad un evento storico, che avrebbe cambiato qualcosa in Italia. Ed è stato così, effettivamente.
«Sì, è stato così. Non solo perché i numeri ci hanno dato ragione, anche per la qualità dei contenuti e per l’emozione che s’è vissuta in quella serata. È diventata un fatto politico, perché ha fatto uscire di casa il telespettatore, l’ha portato nelle strade e nelle piazze, l’ha messo in comunicazione con altri».
Annozero e lei in prima persona siete stati accusati spesso di antiberlusconismo becero. Emilio Fede, durante una diretta, s’è tolto il microfono ed è andato via, dicendo che non voleva più ascoltare quelle offese gratuite contro il premier. Lei si sente antiberlusconiano? E, se sì, qual è il significato che dovremmo dare all’antiberlusconismo?
«Io credo nell’articolo 21. Combatterò sempre chi si mette contro la libertà d’informazione, come giornalista. Io ho il dovere di informare e, soprattutto, i cittadini hanno il diritto di sapere. Se Berlusconi non avesse il controllo delle televisioni io non sarei antiberlusconiano. Non mi sento antiberlusconiano in quel senso là, dico soltanto che è inaccettabile che in un paese democratico chi governa la politica contemporaneamente diventi il cane da guardia dell’informazione. Dovrebbe essere il contrario: io voglio avere la schiena dritta perché il mio dovere è fare il cane da guardia del potere».
A proposito di cani. Gianfranco Fini ha recentemente dichiarato che, per via delle sue posizioni politiche, Berlusconi gli avrebbe presto sguinzagliato contro i suoi cani. Parlava di Vittorio Feltri. La sua, quella di Feltri intendo, non è una maniera sbagliata di fare giornalismo?
«A questo punto, dobbiamo entrare nel merito. Noi sappiamo che Il Giornale economicamente e politicamente sta con Silvio Berlusconi, e non c’è da stupirsi. Minzolini al TG1 ha fatto qualcosa di diverso, perché l’ha orientato da una parte, anche se il TG1 è il telegiornale di tutti gli italiani. Il che non vuol dire che non abbia una linea, perché deve averla, però così schierata fa perdere ascolti e credibilità. Giustamente, a te e a me gli editoriali di Feltri non piacciono. Ma io raramente compro Il Giornale, se lo compro è solo perché devo farlo per lavoro. Di solito, preferisco La Repubblica o il Corriere della Sera, perché ne ho la libertà. In televisione non ce l’ho, questa libertà. Se Feltri scrive “negri” ed è un’espressione razzista, ci si rivolge alla magistratura e sarà quella a giudicarlo, non io. Non mi piace quello che scrive Feltri? Bene. Questa è la democrazia».
E se nel tg diretto da Minzolini si dice “assoluzione” al posto di “prescrizione”?
«Lì spetterebbe all’editore intervenire. E qui sta la grande anomalia italiana: noi abbiamo un servizio pubblico che fa riferimento alla politica, quindi non indipendente».
Tra gli argomenti di cui lei s’è occupato c’è anche il caso di Ciancimino jr. I rapporti tra mafia e politica sono ancora un argomento tabù?
«Secondo me sì. Tu parli del passato per parlare del presente, e allora è chiaro che la politica non ha interesse a parlare dei suoi rapporti con la mafia. È un tabù, sì. Nelle intercettazioni dell’inchiesta di Trani si vede chiaramente che una delle cose che danno più fastidio a Berlusconi è che si parli dei casi Dell’Utri e Mills, che lo riguardano. Adesso, in parlamento, si prova ad approvare la legge sulle intercettazioni, che è completamente incostituzionale per quanto riguarda il diritto nostro di informare, e che creerà parecchi problemi alle indagini sulla corruzione, sulla mafia, e così via…».
Essere un giornalista del sud come condiziona, se lo condiziona, il suo modo di fare questo mestiere. Sente più forte l’esigenza di parlare di temi come la mafia e la corruzione?
«Non lo so. Io ho un gemello, e tutti mi chiedono com’è essere gemello, ma io non lo so, perché per me è normale, è un fratello. Certo, sento forte la necessità di parlare di mafia. Ma so anche che c’è pure a Milano, so anche che in Emilia Romagna pezzi di autostrada e della TAV sono stati costruiti con i soldi della camorra di Casal di Principe. So che è una questione nazionale. Io ho un’attenzione in più, perché nel mio territorio l’ho vissuta in maniera diversa. Mentre al nord la mafia investe e si nasconde, nelle nostre terre, a Catania come a Palermo e a Napoli, ci si ammazza, c’è il racket delle estorsioni che riguarda quasi tutta l’economia del Mezzogiorno, c’è gente che muore da innocente».