Considerato da più parti come uno straniero dei giochi universitari, il professore di Farmacologia potrebbe essere l'ago della bilancia di uno scontro tra Francesco Basile e il recchiano Enrico Foti. Al centro del suo programma l'esclusione di ambienti esterni dal controllo dell'ateneo e dei dipartimenti
Elezioni Unict, il candidato outsider Filippo Drago «No alla politica e al familismo nell’università»
Medico, specialista in Psichiatria, Neurologia e Igiene mentale. Filippo Drago è professore ordinario di Farmacologia e direttore del dipartimento Biometec dell’università di Catania. Entra alla chiusura delle candidature nella corsa al rettorato, dopo l’annuncio estivo del recchiano Enrico Foti di Ingegneria e nonostante sia considerato da più parti un outsider della politica universitaria. Un alieno che, però, potrebbe essere ora ago della bilancia all’interno delle fazioni che si contendono il controllo dell’ateneo.
Una candidatura, la sua, considerata anomala soprattutto per la sovrapposizione, nella stessa area didattica, con quella del suo collega e preside della facoltà di Medicina, Francesco Basile. Uno scontro impari, secondo coloro i quali vedono già in quest’ultimo il prossimo Magnifico, che potrebbe però creare scompiglio viste le comuni «radici pignatariane», come le definisce lo stesso Drago. È proprio nel solco del progetto iniziato dall’ex rettore che il docente di Farmacologia vuole infatti inserirsi, impostando il suo programma su «trasparenza ed efficienza», contestando l’ormai celebre statuto di Tony Recca e guardando verso una sempre più radicale autonomia dei dipartimenti.
Professore, quand’è che ha deciso di candidarsi per il Rettorato? Queste elezioni sono caratterizzate da una polarizzazione tra due visioni opposte di gestione dell’università, incarnate dai due ex rettori Tony Recca e Giacomo Pignataro. Lei cosa ne pensa e qual è la sua posizione?
«La mia decisione è stata formalizzata subito dopo che il professore Giacomo Pignataro ha dichiarato ufficialmente, con una nota per i docenti, di non volersi ripresentare. Esisteva già una candidatura ufficiale, prima di questo momento, che era stata annunciata dal professore Enrico Foti, in chiara posizione antagonista nei confronti dell’operato di Pignataro. Per questo, dall’ambizione di continuare l’opera di riorganizzazione dell’ateneo sulla base di criteri di efficienza e trasparenza, ho deciso di espormi».
Pensa di potere ostacolare il suo concorrente diretto, che è indubbiamente Francesco Basile?
«Molti mi hanno chiesto se il mio nome è in contrapposizione con quello di Francesco Basile. Voglio subito dire che non è così e non può esserlo, perché entrambi ci rifacciamo alla stessa radice cioè quella dell’operato di Giacomo Pignataro. Le nostre due posizioni però sono diverse. Stimo molto il professore Basile, come attuale presidente della scuola di Medicina, ma il suo modo di vedere l’università risponde a logiche estranee al mio punto di vista. Per quanto mi riguarda, il mio operato sarebbe impostato su decisioni condivise, corali, che non facciano riferimento a obiettivi personali, di lobby, di famiglia o di interesse politico. Aborrisco questi metodi. Mai una decisione sarà presa nel mio studio, ma solo dopo aver condiviso pareri e opinioni. Non imporrò mai il mio punto di vista, perché penso che il rettore deve porre le basi per decisioni che poi devono essere prese insieme agli organi di governo, nel rispetto dei diversi ruoli».
Proprio alla sua area attiene una delle sfide più importanti per la città di Catania: la gestione dell’ospedale San Marco e il ruolo del Policlinico universitario. Da addetto ai lavori, trova che sia un’occasione? È possibile pensare all’apertura di un colosso come il San Marco con l’attuale dotazione organica? E quali sarebbero i benefici che trarrebbero gli studenti dalla struttura?
«Ho seguito la questione del San Marco solo da poco tempo ma credo che il problema principale sia rappresentato dall’identificazione del ruolo dell’università. È necessario capire prima di tutto se nella nuova struttura debbano esistere solo reparti universitari o, piuttosto, se sia più opportuna una compresenza di unità operative universitarie e ospedaliere. Del resto, i fondi per la realizzazione sono stati identificati, ora si tratta solo di superare le difficoltà tecnico-amministrative manifestate negli ultimi tempi e arrivare rapidamente alla conclusione, senza che la struttura diventi la tipica cattedrale nel deserto. Ho sentito qualche malumore da parte dei clinici universitari, ma io credo che sia necessario abbandonare qualsiasi remora in modo da spostarsi senza problemi nel presidio di Librino».
Chiudiamo il capitolo Medicina e ospedali e passiamo alla gestione generale dell’ateneo e, per esempio, alla «razionalizzazione dei meccanismi di accesso». In altri termini, il numero chiuso.
«Credo che questa sia una questione nazionale, non possiamo discostarci molto da quanto deciso dal ministero. Il test di ammissione è uno strumento di selezione che è adottato in tutti i Paesi europei, questo è il problema fondamentale che ci impedisce di abolirlo. Ci sono misure alternative ma non sono funzionalmente adeguate alla realizzazione di un progetto che riesca anche a essere coerente con le richieste del mercato del lavoro. Ci sono delle facoltà che potrebbero farne a meno, in quel caso si potrebbe operare per fare sì che questa misura non diventi uno strumento di penalizzazione. Dobbiamo pensare a interventi di ampio respiro, perfettamente in linea con il livello nazionale».
Un cambiamento vantato dal rettore Pignataro è stato la minore centralizzazione del potere, con i direttori dei dipartimenti che decidono ad esempio su quali progetti di ricerca investire. Secondo lei, una scelta del genere può rendere più efficiente e produttivo il meccanismo della ricerca universitaria? Prevede meccanismi di controllo per evitare che si traduca in un eccessivo potere dei direttori dei dipartimenti rispetto alle decisioni interne?
«Pignataro ha in questo ambito creato la svolta epocale del nostro ateneo. Questa centralità ha dato una nuova spinta alla vita dell’università. Un passo dal quale io ritengo che non non si debba tornare indietro, ma, al contrario si dovrebbe puntare a rafforzare l’indipendenza e l’autonomia dei dipartimento, in una logica simile al modello anglosassone dal quale, del resto, derivano. Quando sono stato in America ho apprezzato la perfetta e completa autonomia finanziaria dei dipartimenti, senza l’ombrello di un controllo di secondo livello da parte dell’università. Mi batterò affinché questo avvenga».
Quale pensa che debba essere il rapporto dell’università con la città? E con la politica regionale?
«Una università moderna, che vede al futuro, che si vuole confrontare con modelli internazionali, non può farlo se non guarda alle proprie radici. Non c’è dubbio che non possiamo chiudere gli occhi davanti alla politica regionale o a quella nazionale, il confronto si fa con tutti senza distinzioni, senza fissare paletti circa l’identità dell’interlocutore. Tuttavia, e sarò categorico, la politica non deve entrare nelle stanze delle decisioni dell’ateneo, non deve interferire minimamente. Su questo vigilerò fino alle estreme conseguenze. Fino a oggi i rettori che hanno deciso di scendere nel campo della politica hanno sbagliato. Mi riferisco a esempi recenti e passati. Guardo invece con molto interesse a una collaborazione reale e creativa con il territorio, con le associazioni, il volontariato, le cooperative, le imprese piccole e grandi, i centri di ricerca di tipo pubblico e privato».
Queste elezioni anticipate sono frutto della battaglia giudiziaria sullo statuto d’ateneo voluto da Tony Recca. Un documento che, secondo i giudici e il ministero dell’Istruzione, era illegittimo e troppo accentratore. Lei cosa pensa di quello statuto?
«Questo è il passato a cui non voglio più guardare. Lo statuto, che è stato oggetto di ricusazione da parte del ministero, è stato la causa di tutta questa dolorosa vicenda amministrativa. Ed è stato fortemente voluto da Recca e da Lucio Maggio. Io c’ero quando è successo e mi ricordo che, nonostante le opposizioni, furono loro a insistere».
Un altro punto di scontro è stato il ruolo di direttore generale. Rivendicato da Lucio Maggio e al momento occupato da Federico Portoghese, che su impulso del Cda sta procedendo a una revisione degli atti della precedente gestione d’ateneo. Qual è la sua posizione al riguardo? Chi sarebbe il direttore generale sotto la sua gestione?
«Non vorrei riaprire vecchie ferite. Posso dire che Maggio ha chiuso comunque il periodo del suo contratto a luglio. Noi abbiamo un direttore generale che ha un contratto valido, Federico Portoghese, e quindi sarà lui a continuare il suo lavoro anche se io sarò eletto. Lo stimo molto come tecnico, di lui si è fidato Pignataro, ha anche condiviso il progetto di decentramento, quindi è chiaro che esiste un’armonia di intenti che non posso certo disconoscere».
Che priorità dà ai seguenti punti: stabilizzazione del personale tecnico-amministrativo precario, assunzione dei ricercatori, assunzione di nuovi associati e ordinari?
«Tra i tre il più urgente è sicuramente l’assunzione dei ricercatori. Bisogna creare le basi per un ampliamento del loro ruolo, visto che sono di fatto lo zoccolo duro della vita universitaria per molti aspetti. Il personale tecnico-amministrativo, invece, è già oggetto di un intervento finanziario presente nel piano triennale approvato dal senato, e che aspetta ora il vaglio del Cda. Con questo penso che loro possano ritenersi soddisfatti. La progressione di carriera o la chiamata di nuovi ruoli di associato e ordinario ritengo invece sia la terza priorità tra quelle elencate».