Cartellonistica, ennesima protesta di Job creation Lavoratori: «Continuiamo a credere nella giustizia»

«Sono arrivata in azienda l‘8 febbraio 1998. Praticamente sono stata la prima dipendente effettiva. Adesso di anni ne ho 40: metà della mia vita l’ho trascorsa qua dentro». Katia è una degli ultimi cinque dipendenti dell’azienda Job creation e quando parla del suo lavoro le trema la voce. Lo stesso succede alla sua collega Teresa48 anni, arrivata nel 2000, e a Giacomo, 41 anni, lavoratore dell’impresa di Misterbianco da 17. I loro volti sono su diversi cartelloni pubblicitari in giro per Catania e raccontano la storia di un contenzioso col Comune che non si è ancora risolto. 

La storia è complicata e tiene banco sulle pagine dei giornali ormai da anni. Job creation si occupa di cartellonistica: nel 1999 l’azienda riceve l’autorizzazione per 63 impianti nel territorio comunale. Una goccia nel mare, se si considera che il settore è dominato da tre colossi: Start-Alessi, Damir e Simeto Docks. È parte della concorrenza a cominciare una battaglia legale contro le concessioni ottenute da Job, uno stillicidio di ricorsi e controricorsi che – tra esiti alterni – si conclude a maggio 2015, quando il Consiglio di giustizia amministrativa stabilisce che sia alcuni provvedimenti dell’ex sindaco Raffaele Stancanelli sia un protocollo d’intesa con le aziende del settore firmato dal primo cittadino Enzo Bianco sono illegittimi. Nel frattempo, però, le autorizzazioni a Job creation sono state revocate.

La nuova stagione per le affissioni che avrebbe dovuto aprirsi dopo la sentenza del Cga, in realtà, non parte mai. Così le autorizzazioni precedentemente concesse alle imprese attive a Catania arrivano alla loro scadenza naturale e gli impianti sul territorio diventano, nei fatti, abusivi. «Ma vengono utilizzati. Ecco perché siamo stanchi – ricorda Katia – Perché la nostra concorrenza non viene multata, loro continuano a lavorare e noi no. Io mi occupo del commerciale e non posso proporre ai clienti la cartellonistica su Catania. Significa anche perdere buona parte della provincia: è ovvio che la città capoluogo sia fondamentale». Le difficoltà più pesanti iniziano nel 2012, ma la portata del problema non è subito chiara: «Pensavamo che fosse una cosa che cambiava, che in 15 giorni, magari un mese, le cose si sarebbero risolte. Abbiamo sperato mese dopo mese, abbiamo guardato i nostri clienti rivolgersi ad altri, siamo stati costretti ad ammettere le nostre difficoltà».

E adesso che il Natale si avvicina il momento complicato è più evidente: «Eravamo abituati, ogni anno, a vederci crescere. Quando ci scambiavamo gli auguri e festeggiavamo tutti insieme eravamo sempre uno in più», racconta Teresa, che si occupa dell’amministrazione. «All’improvviso non è stato più così, e abbiamo cominciato a essere sempre uno in meno – dice – Prima vedevamo altre aziende subire la crisi economica generalizzata e noi ci sentivamo fortunati. Qua eravamo una grande famiglia, c’erano armonia e un gruppo affiatato. Ora tutto questo si è perso». Da 12 dipendenti che erano, sono rimasti in cinque. «Prima il part-time era una scelta – interviene Roberta, un’altra collega – Adesso no. Facciamo i turni per organizzarci al meglio, ogni tanto portiamo i figli in ufficio perché non sappiamo a chi lasciarli».

Chi può, chi c’è riuscito, ha aggiunto un’altra occupazione a quella in Job creation. C’è chi, per esempio, il sabato e la domenica va a consegnare pizze a domicilio, per mandare avanti una famiglia. «Io ho tre figli – spiega Giacomo – mia moglie lavora ogni tanto. Facile non è». «Stiamo perdendo la fiducia nelle istituzioni – sostiene Teresa – Ci preoccupiamo per il nuovo anno e per il futuro. Noi abbiamo sempre saputo di essere un’azienda piccola, ma offrivamo un servizio di qualità e in questo eravamo diversi. Ora ci sentiamo schiacciati dai colossi». Ma, conferma Roberta, «noi non facciamo passi indietro. Speriamo che qualcuno si svegli e si renda conto di quello che ci stanno facendo». «Le cose devono cambiare, abbiamo vinto anche in tribunale – conclude Teresa – È una questione di giustizia sociale, e noi ci crediamo».


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