Ultime battute per il processo sulla strage del Mediterraneo, in cui morirono centinaia di migranti. Alla sbarra anche il presunto scafista Mohammed Alì Malek. Secondo l'avvocato ci sarebbero corresponsabilità della nave mercantile che ha soccorso l'imbarcazione a largo della Libia. Per questo ne chiede l'assoluzione
Naufragio con 700 morti, «Malek era un passeggero» La difesa del presunto comandante accusato di strage
Due ore di arringa difensiva per cercare di scagionare, o quanto meno alleggerire, la posizione processuale di Mohammed Alì Malek. Presunto comandante dell’imbarcazione naufragata nell’aprile 2015 a largo delle coste libiche e che causò una delle più grandi stragi di esseri umani nel mare Mediterraneo. Quasi 700 migranti morti e 28 superstiti, tra cui i due imputati. Insieme ad Alì Malek dietro le sbarre, del processo con rito abbreviato, c’è il suo presunto mozzo: Ahmud Bikhit, difeso dall’avvocato Giuseppe Ivo Russo. Per il primo la procura di Catania ha chiesto 24 anni di carcere, sei per l’altro. Il presunto comandante è accusato di strage in mare, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il peschereccio, secondo la ricostruzione fatta in quei giorni, ha urtato la nave mercantile King Jacob, giunta sul posto dopo essere stata allertata dalla centrale operativa di Roma della guardia costiera, per aiutare il natante in difficoltà.
«Abbiamo focalizzato alcuni punti importanti che riguardano il momento dell’impatto e la responsabilità colposa. La giudice ci ha ascoltato e ha deciso di rinviare per repliche. Ho chiesto l’assoluzione piena o in forma dubitativa», spiega a margine dell’udienza l’avvocato Massimo Ferrante, difensore di Alì Malek. Per il legale ci sarebbe una corresponsabilità colposa da parte della King Jacob. Le manovre errate della nave cargo portoghese potrebbero avere avuto un ruolo nella collisione e nell’affondamento del peschereccio. Ipotesi, quest’ultima, sempre smentita dagli uffici giudiziari etnei. Alcuni membri dell’equipaggio del King Jacob sono stati sentiti dagli inquirenti a Palmi, in Calabria, subito dopo l’approdo del mercantile al porto di Palermo.
Da capire e valutare c’è anche il ruolo che avrebbe avuto a bordo Alì Malek. «Il mio assistito, fin dall’inizio, ha dato la sua versione dei fatti – spiega Ferrante -. Lui dice di essere stato inizialmente un semplice passeggero del peschereccio». Una tesi che l’uomo ha mantenuto durante tutto il processo, nonostante le accuse dell’altro imputato. «Si trattava di una nave che non aveva un capitano definito quando è partita dalla Libia», aggiunge il legale. A cambiare le carte sul tavolo della giudice Daniele Monaco Crea potrebbero essere le valutazioni sulle testimonianze dei superstiti. Dodici persone che secondo Ferrante «non hanno fornito un quadro del tutto chiaro».
Il viaggio, secondo quanto emerso durante il processo, sarebbe iniziato via terra nel deserto del Sahel. Poi una lunga sosta, forse durata mesi, in alcune fattorie nei pressi della capitale libica di Tripoli. Dopo il pagamento – di somme variabili da cinquecento a mille dinari per il viaggio verso la Sicilia – è iniziata la traversata conclusasi in tragedia. Tra le concause indicate dalla procura di Catania ci sono «il sovraffollamento dell’imbarcazione e le errate manovre compiute dal comandante Malek, che portarono il peschereccio a collidere col mercantile King Jacob, intervenuto per soccorre i migranti».
Il barcone e i corpi sono stati recuperati a 370 metri di profondità dopo non poche polemiche, e trasferiti nel porto di Melilli, nei pressi di Siracusa. L’operazione, disposta dal ministero della Difesa e coordinata dalla marina militare senza nessun input dell’autorità giudiziaria etnea, è costata nove milioni e mezzo di euro. Sulle salme sono state fatte delle accurate analisi con lo scopo di acquisire informazioni utili a creare un network a livello europeo che permetta di risalire all’identità dei corpi attraverso l’incrocio dei dati.