Il ragazzo che ha confessato di aver ucciso Aldo Naro, avrebbe lavorato al Goa in una rete non ufficiale di buttafuori insieme ad altri ragazzi del quartiere, tra cui il figlio di un boss all'ergastolo. Intanto abitanti e volontari che operano allo Zen si difendono: «La città si sta scagliando contro un pezzo di se stessa per lavarsi la coscienza»
Caso Naro, minorenne faceva lavoro sporco a 40 euro «Inaudito dire che tutto lo Zen sia abitato da mostri»
Adesso si chiama quartiere San Filippo Neri, molti lo conoscono come Zen e Zen 2. I due quartieri popolari di Palermo in questi giorni sono sotto assedio dai carabinieri. Un minorenne proprio di quella zona avrebbe ucciso Aldo Naro all’interno del locale del Goa. Il presunto assassino giorni fa si è presentato alla Malaspina e confessato il reato. Lui era lì non per divertirsi ma per lavorare assieme a un suo amico, sempre dello Zen. Figlio di un boss mafioso da anni all’ergastolo. Stando alle dichiarazioni del minorenne, per 40 euro facevano il lavoro sporco nel locale. Evitavano di far scavalcare i ragazzi del quartiere all’interno del club. Sedavano risse. Ma quel giorno c’è scappato il morto. Un giovane di buona famiglia, laureato in Medicina. Dalla discoteca Goa non rilasciano dichiarazioni, «perché ci sono indagini in corso».
L’opinione pubblica in queste ore sta col dito puntato su tutto il quartiere. Lo Zen alla forca. Ma i residenti non ci stanno a questa denigrazione mediatica. In quel quartiere che da anni è una zona franca di Palermo, vittima della mala politica, domani, 20 febbraio, alle 21 ci sarà una fiaccolata – la seconda dopo quella di ieri in centro – che partirà dalla chiesa di San Filippo Neri e si concluderà proprio all’ingresso del Goa.
«L’assassino dovrà pagare le sue colpe. Ma è inaudito riuscire a pensare che un intero quartiere popolare è abitato da mostri – afferma Elena, abitante dello Zen – Posso garantire che il nostro quartiere con i mille problemi irrisolti ha cuore e dignità. Noi tutti siamo vicini alla famiglia di Aldo Naro. Sono convinta che chi ha ucciso il giovane medico non voleva farlo. Purtroppo – continua la residente – ho assistito ad un sacco di risse. Questa volta è finita in tragedia. Ma le liti notturne avvengono per complicità anche dei proprietari dei locali. Dell’eccessivo consumo di alcool. Di una sicurezza quasi inesistente. Tutto questo non esula che chi ha sbagliato, la legge dovrà punirlo. Ma allo Zen non esistono dei mostri. Esiste magari ignoranza. Ragazzi problematici. Ma non dei mostri».
Della stessa lunghezza d’onda è la presidentessa di Laboratorio Zen Insieme, la più antica associazione di volontariato del quartiere Zen 2, Mariangela Di Gangi. «Quella a cui stiamo assistendo in questi giorni è una colpevole generalizzazione, che non serve ad altro che a rafforzare un pregiudizio già esistente, nel migliore dei casi. Ciò che troviamo assurdo è come si sia voluto spostare il dibattito su una questione che, invece, non appare direttamente connessa all’accaduto, volendo focalizzare l’attenzione non soltanto sui soggetti coinvolti, ma su un intero quartiere».
Con le conseguenze che questo comporta. «Non ci si può non rendere conto – continua Di Gangi – di come questa ulteriore ghettizzazione mediatica abbia dei risvolti concreti sulle vite delle persone che in un quartiere complicato come lo Zen ci vivono e che provano ad emanciparsi quotidianamente da una condizione di marginalità, cui sono costretti e che non hanno scelto. Lo Zen è Palermo e di Palermo si deve parlare. Mentre quello che traspare dal dibattito di questi giorni è una sorta di esorcizzazione da parte del resto della città, che con una dura invettiva, a tratti anche violenta, contro un pezzo della propria città, prova solo a lavarsi la coscienza e a ribadire distanze che non dovrebbero esistere».