Si presenta per la prima volta davanti ai giudici la moglie di Luigi Ilardo, ex boss e infiltrato con il nome in codice Oriente, ucciso nel 1996 a Catania. Quella sera venne cercato a casa da un uomo misterioso. E si infittisce l'enigma legato al furto nell'abitazione un mese prima dell'agguato
Omicidio Ilardo, parla la vedova dell’infiltrato Il mistero del postino che suonò due volte alla porta
Parla per la prima volta la moglie di Gino, il diminutivo con cui era conosciuto Luigi Ilardo, l’ex boss che da infiltrato con il nome in codice Oriente dentro Cosa nostra aveva portato, nell’ottobre del 1995, gli uomini del Ros dei Carabinieri fin dentro il covo di Bernardo Provenzano. Il padrino corleonese, all’epoca dei fatti ricercato numero uno in Italia per essere il vertice della cupola mafiosa, tuttavia non venne catturato. Una scelta attendista da cui, a distanza di anni, è nato un processo che ha portato sul banco degli imputati con l’accusa di favoreggiamento aggravato, il generale Mario Mori e il colonnello Mario Obinu. Dopo l’assoluzione in primo grado, i due ufficiali del Ros sono tornati ad essere imputati nel processo d’appello.
«Quella doveva essere una giornata particolare. Ho cercato di ricostruire e di dimenticare per tutti questi anni». A riferirlo, interrotta da qualche momento carico d’emozione, ripercorrendo quel 10 maggio 1996, è la moglie di Ilardo, Concetta Strano. «Era fuori casa ma eravamo in contatto telefonico. L’ultima chiamata arrivò intorno alle 20, sentivo una canzone in sottofondo, quindi collegai il suo imminente arrivo a Catania». Negli istanti in cui Gino (Ilardo ndr.) veniva freddato dai killer in via Quintino Sella, angolo via Mario Sangiorgi, la signora racconta che si trovava in bagno per truccarsi, «Ho sentito degli spari, più colpi di pistola – racconta al pm Pasquale Pacifico – mi precipitai in strada, ma dopo averlo chiamato due volte senza ricevere risposta, ho capito che era morto. Avevo il pensiero di salvaguardare i miei figli e tornai all’interno dell’abitazione». Nessun rumore quindi da associare al mezzo che sarebbe stato utilizzato dai sicari, ma soltanto la strada con il corpo del marito riverso a terra dopo essere stato crivellato da numerosi colpi d’arma da fuoco.
Il mistero sulle ore immediatamente precedenti l’omicidio si infittisce però con una nuova rivelazione. Un passaggio chiave di cui la donna non aveva mai parlato agli investigatori nemmeno nelle ore successiva all’agguato, risalente al 1996. «Una persona con accento grezzo – specifica durante la testimonianza – quella sera citofonò per ben due volte chiedendo di Gino. Io risposi che era per strada e stava rientrando». Un uomo a cui la donna non associa un nome ma soltanto il nomignolo con cui il marito era solito appellarlo, ossia il postino.
L’uomo, con ogni probabilità, potrebbe essere Aurelio Quattroluni, padrino della famiglia mafiosa dei Santapaola, di professione proprio postino, che nel triennio 1994/1996 rivestì la carica di reggente di Cosa nostra a Catania. Proprio Lello il postino, secondo il racconto del collaboratore Giovanni Brusca, sarebbe stato inizialmente l’uomo incaricato di commettere l’omicidio per poi essere scavalcato dagli odierni imputati, Benedetto Cocimano, Vincenzo Santapaola, figlio di Salvatore, Maurizio Zuccaro e il cugino dello stesso Ilardo Giuseppe piddu Madonia. Tra gli esecutori materiali anche due killer, ormai deceduti, Maurizio Signorino e Pietro Giuffrida oltre al collaboratore di giustizia Santo La Causa, già condannato nel rito abbreviato. Il ruolo di Quattroluni è tutto da chiarire così come avvolto nel mistero più assoluto resta il furto in caso Ilardo un mese prima l’omicidio.
«Ricordo – rivela la donna – che nel portagioie non c’era nulla. Mio marito mi disse di controllare anche la cassaforte. Presi la chiave e dopo averla aperta mi accorsi che questa era stata svuotata». L’interrogativo a questo punto ruota su chi effettivamente conoscesse il posto in cui proprio la chiave veniva tenuta nascosta. «Avevo cambiato il nascondiglio da poco – racconta – perché a casa le mie figlie si frequentavano con dei ragazzi. Prima la tenevamo dentro la custodia per l’apparecchio della pressione. Quel giorno lo trovai sul letto».
Tra i tanti dubbi di questa vicenda c’è anche quello relativo ai gioielli rubati. La moglie di Ilardo infatti riconobbe a dei gemelli con dei grossi crocifissi durante un servizio televisivo sull’arresto del boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, avvenuto dieci giorni dopo l’omicidio di Gino. Concetta Strano tuttavia non ha mai avuto la certezza assoluta che quelli visti durante il telegiornale fossero i suoi gioielli, nemmeno quando a distanza di anni consultò un fascicolo fotografico a Palermo. I preziosi non sono stati mai visionati personalmente dalla donna perché a vennero poi restituiti al padrino palermitano. «Mio marito mi disse che avevano rubato nella sua chiesa ma che tutto si sarebbe comunque sistemato, io pensavo fosse una bravata da ragazzi». Dentro quella cassaforte oltre a «gioielli, soldi e orologi rolex» potevano anche esserci documenti riservati.
Sotto il più stretto riserbo doveva esserci anche la scelta di Luigi Ilardo di passare dal lato della giustizia diventando ufficialmente un collaboratore. Pochi giorni prima dell’omicidio, il 2 maggio 1996 a Roma, davanti ai magistrati Giovanni Tinebra, Giancarlo Caselli e Maria Teresa Principato, l’infiltrato del colonnello Michele Riccio rendeva le prime dichiarazioni per formalizzare il suo impegno dalla parte dello Stato. Un impegno che non riuscì a portare a compimento. Il confronto, dopo le prime rivelazioni, venne interrotto e Ilardo venne rimandato a Catania senza nessuna tutela prima di trovare la morte sotto casa a distanza di otto giorni dalla trasferta nella Capitale. «Dopo la scarcerazione mio marito – spiega Concetta Strano – ebbe numerosi contatti con un certo Bruno che aveva un accento del Nord, ma soltanto dopo aver letto il libro Il Patto ho scoperto essere il colonnello Michele Riccio», il militare del Ros che aveva raccolto le confidenze di Ilardo.