Giovanni Riina resta al 41 bis: «Non è venuta meno la pericolosità del soggetto»

Il tribunale di sorveglianza di Roma ha confermato il carcere duro per Giovanni Riina, figlio del superboss Totò, in carcere dal 1996, dove sta scontando l’ergastolo per tre omicidi avvenuti a Corleone (Palermo) nel 1995. I magistrati si sono pronunciati negativamente sebbene a dicembre la Cassazione avesse annullato con rinvio un precedente diniego alla revoca del cosiddetto 41 bis: i supremi giudici, accogliendo in parte le tesi difensive, avevano chiesto di «rivalutare la attualità della pericolosità», rimandando il provvedimento alla sorveglianza romana.

Ora però il giudizio del tribunale non è cambiato, sulla scorta di una serie di considerazioni, relative ai collegamenti, tuttora esistenti, col mondo esterno alle carceri e soprattutto alla figura del secondogenito di Riina, che non ha ancora compiuto cinquant’anni e ha trascorso più della metà della vita in cella. Totò Riina è morto nel 2017 ma la sua immagine e il suo cognome sono ritenuti tuttora, in tutti gli ambienti mafiosi, un punto di riferimento.

Nel parere negativo rispetto alla revoca, la Direzione nazionale antimafia, rappresentata dal pm Franca Imbergamo, aveva evidenziato alcuni elementi concreti, in particolare il fatto che la famiglia Riina, benché sulla carta priva di introiti economici, continua a vivere senza alcun problema di sostentamento, visto che da numerosi esponenti dei clan arrivano forme di sostegno legate alla gestione occulta di un ingente patrimonio illecito accumulatosi nel corso degli anni.

È così che la vedova Riina, Ninetta Bagarella, e i figli Giovanni e Giuseppe Salvatore Riina (quest’ultimo libero, dopo avere scontato una condanna per mafia), ricevono tuttora «i proventi che l’associazione mafiosa percepisce sul territorio». Giovanni Riina è ritenuta, tra l’altro, «persona estremamente pericolosa, la cui capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale non è certamente venuta meno», specie in un momento in cui i mandamenti mafiosi cercano a più riprese di formare di nuovo un vertice dell’organizzazione, ispirandosi alle più «consolidate tradizioni storiche dell’associazione criminale, dato che l’esercizio del potere risponde sempre a canoni organizzativi».


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