Blitz Ultimo brindisi, dagli assegni sbagliati ai prestanome che vivono sgomberando cantine: «Non mischiamo i pupi»

«Un articolatissimo, vorticoso giro di fatturazioni false». Tanto da far girare la testa agli stessi protagonisti, alle prese con una serie di cessioni di rami d’azienda, società in liquidazione, fallimenti, bonifici in entrata e in uscita e conti da fare quadrare tra errori di distrazione e l’arte del «tracchiggeremo». Il tutto attraverso la compravendita di bevande, condotta tra l’Italia e l’estero ma con base a Belpasso, nel Catanese, in modo da evadere gli obblighi di versamento dell’Iva e creare dei crediti d’imposta inesistenti a vantaggio delle aziende coinvolte, danneggiando le casse dello Stato per 30 milioni di euro. È una finanza molto creativa, a tratti improvvisata, quella che viene fuori dall’inchiesta Ultimo brindisi con 41 indagati dalla procura europea di Palermo sulla base delle indagini della Guardia di finanza di Catania. Un giro che avrebbe avuto a capo Filippo Intelisano, 41 anni, incensurato, arrestato all’aeroporto di Venezia mentre stava per prendere il volo, insieme alla moglie, per Dubai. «Che Filippo è figlio di… capito?», anticipa la sua fedele collaboratrice, Milena Bulla (anche lei arrestata) al suo interlocutore. Figlio di Pippo u niuru, al secolo Giuseppe Intelisano, per un periodo reggente della famiglia Santapaola-Ercolano e oggi all’ergastolo in regime di carcere duro a Sulmona.

Il business della compravendita di drink

Al centro dell’intricata rete di aziende compiacenti c’era la Diabolik Drink srl, società di fatto riconducibile a Intelisano ma gestita per suo conto da Cristian Parisi e legalmente rappresentata da Carmela Anfuso, «in realtà prestanome», secondo l’accusa. Nel 2017, l’azienda vende merce per circa cinque milioni di euro, con quasi un milione di Iva da scorporare. Nello stesso anno, ne acquista per una cifra quasi identica ma senza iva. Un’equivalenza tra entrate e uscite, senza alcun guadagno, che insospettisce non poco la Guardia di finanza. «Le vendite sono state intenzionalmente effettuate sottocosto – si legge nei documenti – al medesimo prezzo d’acquisto ma con una fattura comprensiva dell’Iva che in realtà risulta scorporata, con conseguente beneficio per gli acquirenti»: da un lato un prezzo più basso rispetto al mercato e dall’altro il diritto di detrarre l’Iva dalle tasse da pagare. «Superfluo aggiungere che la Diabolik Drink non ha mai versato all’erario l’Iva in tal modo accumulata», specifica la giudice Marina Rizza. Un’operazione spregiudicata che non sarebbe nuova per Filippo Intelisano, già indagato nel 2008 per aver tentato di riacquistare l’azienda di trasporti Riela group, confiscata alla mafia nel 1999.

I tracchiggi con le fatture: il ruolo della collaboratrice

«Dobbiamo trovare degli escamotage, va…». È solo uno dei modi degli indagati per indicare conteggi da mal di testa tra 17 aziende compiacenti. Se a dettare la linea sarebbe stato Filippo Intelisano, a tessere i rapporti e a provare a far quadrare i conti sarebbe stato invece il compito di Milena Bulla, sua storica collaboratrice. Che ogni tanto, però, qualche colpo lo perde pure lei. «Milena, minchia, è una vita che ti confondi… Sono undici anni che ti confondi», sbotta un giorno Intelisano con la donna. La stessa a cui, però, tocca seguire ragionamenti del tipo: «Mft vende a Crea, Crea a chi vende? A San Marino… E San Marino vende a Renergy e levaci mani». Compresi i finti trasporti di merce da organizzare, come quello dall’Italia alla Bulgaria per poi far figurare la merce sbarcata a Catania. Il tutto avendo anche a che fare con amministratori d’azienda – veri o di fatto – spesso improvvisati, alcuni poco collaborativi e altri decisamente distratti. «È da un anno che faccio ste cose, prima non sapevo manco che era una fattura… Mi sono messo la sera con la santa pazienza a insegnarmi», le confessa il titolare di una ditta di distribuzione.

I conti che non tornano e i «pupi mischiati»

«Io con un telefono solo non sono riuscito… Con la calcolatrice, un secondo lo possiamo fare noi questo conteggio? Vediamo se mi risulta?», le sottopone un altro. Lo stesso che, davanti all’ennesimo conto che non torna, risolve facile: «A questi gli avrò inventato qualche fesseria». Come quella commessa invece da un altro indagato che si accorge di aver sbagliato a intestare una serie di assegni, tutti a nome di una ditta inattiva da anni: «Minchia, compare, li ho sbagliati tutti quanti, ma come mi è potuto venire? Sto perdendo colpi». Comprensibile, quando non ci si ricorda neanche più chi amministra cosa e da dove spuntano i soldi: «Allora, dunque, ripetiamo, siamo a scuola oggi…», scherza un indagato; «Interrogazione… – ride Milena Bulla – Allora, questi se li sta portando», riferendosi a oltre 60mila euro in contanti, a cui aggiungere dei misteriosi 34mila. Una situazione che toglie la pace anche al consulente fiscale Andrea Maria Raffaele Carelli, finito ai domiciliari: «Ma non quadra niente con quello che c’è qua al computer – sbotta un giorno – Non so che ci devo dire a quest’avvocato oggi! Ma a me chi mi ci ha portato guarda, io pace non ne ho avuta più». E dire che Bulla ci provava a «non mischiare i pupi», ma con alterne fortune.

I prestanome: ricchi sulla carta, poveri di fatto

«Ma tu a me mi hai conosciuto per uno che lavora per cento euro? Per cento euro, me ne vado un mese in vacanza», chiarisce Filippo Intelisano. Lo stesso, però, non potevano dire i prestanome delle società da lui coinvolte, alle prese con problemi economici quotidiani, nonostante le aziende milionarie amministrate sulla carta. Come Carmela Anfuso, prestanome proprio di Intelisano, che un giorno decide di cominciare a lavorare davvero, nella vendita di prodotti da casa con cui un conoscente «questa settimana ha guadagnato 21 euro». Uno spirito di iniziativa non condiviso dal marito: «Non ne hai bisogno di lavorare…Tu ti devi stare a riposo con i tuoi figli». Salvo poi lamentarsi: «Ma possiamo mangiare sempre frittata e pollo?». Conversazioni che, per gli inquirenti, rendono chiaro il ruolo fittizio della donna, nemmeno ben retribuita. Così come nel caso di un’altra società riconducibile a Intelisano, secondo l’accusa, ma rappresentata da Francesco Marino, che racconta: «Sono arrivato in banca e più di 120 euro non ho potuto prendere, che non c’erano più soldi… Come può succedere una cosa di questa, scusa eh? Mancano 900 euro e qualche cosa». Un problema pratico con soluzioni alla buona, lontane dal giro d’affari di cui l’uomo avrebbe fatto parte: «Io ho ansia, ho troppe cose da pagare, sono rovinato. Stamattina è capitato che ho liberato un garage e ho guadagnato un 50 euro…».


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