«Ti diamo i soldi per fare il viaggio ma quando arriverai ti dovrai prostituire altrimenti uccidiamo la tua famiglia». Una testimonianza del rito juju che arriva a MeridioNews da Veronica Magro. Entrata a far parte del settore dell’accoglienza e dell’integrazione dal 2018, pochi mesi dopo è diventata coordinatrice responsabile di una delle comunità della cooperativa […]
«Se non ti prostituisci uccidiamo la tua famiglia». Dalle minacce, il riscatto delle migranti parte da Vittoria
«Ti diamo i soldi per fare il viaggio ma quando arriverai ti dovrai prostituire altrimenti uccidiamo la tua famiglia». Una testimonianza del rito juju che arriva a MeridioNews da Veronica Magro. Entrata a far parte del settore dell’accoglienza e dell’integrazione dal 2018, pochi mesi dopo è diventata coordinatrice responsabile di una delle comunità della cooperativa Iride, sparse in tutta l’isola ma la sua con sede a Vittoria, nel Ragusano. «Sproniamo le ragazze a portare avanti il loro percorso di vita, che siano donne sole o con bambini». E spesso bisogna partire da lontano: «Con un piano che vede l’intervento dell’avvocato, facciamo degli incontri sulle informative sulle leggi italiane. Si lavora anche su come si fa la fila alla posta, cose per noi scontate ma per loro no», fa notare la responsabile al nostro giornale. Al momento, un intero piano della struttura è dedicato alle persone che arrivano dall’Ucraina, mentre nell’altro abitano persone arrivate dall’Africa. «Non è per fare distinzioni – specifica Magro – ma perché i tipi di accoglienza sono diversi: gli ucraini hanno una cultura occidentale più vicina alla nostra anche se c’è un muro di diffidenza da abbattere, mentre negli africani la scolarizzazione è il problema maggiore, perché spesso non hanno avuto la possibilità di studiare».
Dietro le quinte della cooperativa c’è un lavoro di squadra con figure specifiche tra cui l’educatrice, l’operatore di accoglienza, il mediatore – fondamentale perché fa da ponte per le esigenze dei migranti – e la psicologa specie per le donne: «Molte di loro sono traumatizzate. Vittime di violenza nel passaggio dal loro paese alla Libia dove vengono imprigionate e violentate. Quando va bene, qualcuno paga per la scarcerazione permettendo loro di partire verso l’Italia». Ferite che non restano solo dentro ma che sono visibili anche fuori, sulla pelle: dalle bruciature all’infibulazione. «Un traguardo importante – prosegue Magro – è essere riusciti a portare a termine un ricongiungimento familiare difficile che si tentava di concretizzare da oltre un anno. Anche in questo caso, il lavoro di squadra tra ambasciate, psicologi e prefetture è riuscito nel suo intento di fare rincontrare un bambino con la madre e il fratello. Superando – continua – le resistenze del padre che faceva continui ricatti chiedendo soldi in cambio del rilascio di suo figlio». Un’altra storia di ricongiungimento familiare, ancora in corso, riguarda una donna che è in Sicilia da due anni e ha una figlia di sei anni ma ora aspetta l’arrivo dell’altra 13enne.
«Lavorare in comunità assorbe. Un sacrificio ripagato dai sorrisi delle persone di cui si diventa punto di riferimento». Tra le storie che più hanno colpito la coordinatrice responsabile c’è quella di «una ragazza del Togo che è andata via anni fa ma con cui siamo ancora in contatto. Una donna già fragile che che durante la traversata ha assistito alla morte del suo ragazzo». Un amore già contrastato, prima della tragedia in mare, dal litigio con il padre che non voleva accettare questa relazione. «Una coltellata alla coscia – ha riferito Magro – che la giovane ha coperto facendo dei tatuaggi sulla ferita». Una storia di vita che la donna ha «raccontato in un diario in francese con tutti i momenti drammatici trascorsi e che ha deciso di farmi leggere. Molte sono diffidenti – aggiunge – e non tutte ci fanno entrare nei loro vissuti». Altre, invece, li condividono al punto che restano anche quando loro vanno via. «Un’altra ragazza che abbiamo visto crescere, arrivata nel 2019, quando è andata via abbiamo pianto tutti perché è stata la più determinata. Una madre che era stata infibulata – racconta ancora Magro – quando aveva dieci anni. Una pratica che ha reso il parto molto doloroso». Storie di vita che formano altre vite.