Capaci e Via D’amelio: per ricordare ancora

Sono le 17:48 di sabato 23 maggio 1992. Un jet dei servizi segreti proveniente dall’aeroporto romano di Ciampino è appena atterrato a Punta Raisi. Sull’aereo Giovanni Falcone e sua moglie Francesca. Sulla pista d’atterraggio, tre auto li aspettano. È la loro scorta, che veglia sul giudice dal giugno 1989, ovvero dal fallito attentato davanti alla sua villa sul litorale dell’Addaura. Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Più Giuseppe Costanza, autista giudiziario. Alle 17:50 il corteo blindato è già sull’autostrada, destinazione Palermo. Niente sirene, non ce n’è bisogno. È questione di minuti. Due – l’autostrada – …quattro – l’aeroporto che si allontana – …sette – la campagna siciliana – … Nove.

17:59. Svincolo di Capaci. L’esplosione investe in pieno la prima auto, sulla quale viaggiavano Montinari, Schifani e Di Cillo. Danneggia gravemente la seconda, con a bordo il giudice, sua moglie e Costanza (che si salverà perché seduto sui sedili posteriori). Riduce a un ammasso di ferri vecchi la terza, sulla quale Capuzzo, Cervello e Corbo sono feriti. Feriti ma vivi.

È il 19 luglio dello stesso anno. Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta sono morti da appena cinquantasette giorni. In mattinata Paolo Borsellino ha ricevuto una telefonata importante: dopo aver tanto lottato, finalmente riceverà la delega che gli permetterà di ascoltare il pentito Mutolo. Decide di andare a Villagrazia, nella sua casa del mare, con la scorta. Fa un giro in barca. Dopo pranzo torna a Palermo, a casa della madre, in via D’Amelio. Lì un’auto imbottita di tritolo lo aspetta. Aspetta lui e la sua scorta. Per esplodere e ucciderli tutti.

Questa la cronaca. Queste le immagini che sono diventate tragicamente famose. Questa la morte di due uomini, di due giudici che sono diventati simbolo di coraggio e di lotta allo strapotere mafioso. E che per farlo hanno dovuto morire. “La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme”, ha scritto Francesco La Licata. E in effetti è uno solo il posto che essi occupano nella nostra memoria, nella memoria storica del Paese. Loro, così diversi (razionale uno, passionale l’altro) ma così uguali, così vicini fin da giovani, così geniali e intuitivi nel lavoro insieme, così fiduciosi l’uno dell’altro, così sicuri del potere della verità. Colleghi e amici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I due fiori all’occhiello del pool antimafia (quell’eccezionale squadra di magistrati nata nel novembre 1983 da un’idea di Antonio Caponnetto) che grazie al loro operato e a quello degli altri membri (Giuseppe Di Lello, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte) riuscì a ottenere il primo maxiprocesso contro Cosa Nostra conclusosi con una raffica di condanne. Perché a loro non importava quanto sporca e pericolosa fosse la verità. Dovevano cercarla. Volevano trovarla a tutti i costi. Era questa la loro missione. Ed erano stati loro a sceglierla, pienamente consapevoli dei rischi.

Non pochi, gli ostacoli sul loro cammino. A cominciare dalle scelte del Consiglio Superiore della Magistratura, che –tanto per citarne una– preferì Antonino Meli a Giovanni Falcone quando si trattò di decidere chi dovesse succedere a Caponnetto nell’incarico di consigliere istruttore, decretando così la fine del pool antimafia e la lenta marcia di Falcone, prima, e di Borsellino, poi, verso la morte. “Quella notte”, -la notte in cui (gennaio 1988) Meli ottenne l’incarico in virtù della sua anzianità di servizio scavalcando Falcone- “Giovanni Falcone ‘cominciò a morire’, anche per la violenta campagna di delegittimazione attuata contro di lui da alcuni organi di stampa”, scrisse più volte lo stesso Caponnetto. Non molti, probabilmente, dopo l’ennesimo schiaffo del genere avrebbero portato avanti “la missione”. Non molti, ma Giovanni Falcone sì. Con il sostegno incondizionato di Borsellino, che da sempre credeva in lui e che si batteva per le stesse convinzioni.

E quando, quel maledetto 23 maggio, qualcuno pensò bene di eliminare Giovanni Falcone, Borsellino non esitò a puntare il dito sulle istituzioni, a pronunciare un discorso pungente nei confronti di chi nel lavoro di Falcone non credeva abbastanza, di chi (come la Corte di Cassazione) continuava sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste. Perché “l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha fatto proprio nel momento in cui si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante tutte le opposizioni, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia”, sono le parole di Borsellino. Perché, è vero, Giovanni Falcone si era trasferito a Roma, aveva lavorato al Ministero di Grazia e Giustizia, e lo aveva fatto perché credeva, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere da Roma un ruolo importante per la lotta alla mafia. Lo aveva fatto per Palermo. Aveva lavorato a Roma, ma aveva deciso di tornare nella sua città, di tornare al più presto a fare il magistrato. Perché amava la terra che l’aveva generato. Così come il suo amico Paolo. E la presenza dei due giudici a Palermo faceva paura alla mafia.

Nonostante i dubbi, i mille misteri che ancora avvolgono le due stragi di quell’anno, è accertato che chi ha ucciso i due giudici li conosceva alla perfezione, conosceva i loro movimenti, sapeva che Giovanni Falcone si sarebbe trovato su quell’autostrada e che Paolo Borsellino si sarebbe recato in via D’Amelio. Se si aggiungono le scomparse degli importanti appunti dei magistrati sulle indagini che stavano seguendo, avvenute inspiegabilmente subito dopo la loro morte, riesce difficile dubitare che la mafia sia stata aiutata nel suo progetto omicida.
“Si sente un sopravvissuto?”, una delle domande rivolte a Borsellino durante la sua ultima intervista, rilasciata al tg5 venti giorni prima di morire. Ed ecco la sua risposta:
“Ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dov’era stato ucciso il dottor Montana nel luglio 1985. Mi disse ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano’. […] Io ho sempre accettato…più che il rischio la condizione, quali sono le conseguenze di quello che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. La sensazione di essere un sopravvissuto non si disgiunge dal fatto che credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me”.
È per idee come queste che vale la pena morire? Siamo certi che tanto Falcone quanto Borsellino avrebbero risposto di sì. Perché è per persone come loro che vale la pena ricordare, è per persone così che vale la pena scrivere, ancora oggi, a distanza di dodici anni. È per persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per tutti i Falcone e Borsellino del mondo, che la guerra alla mafia non può e non deve fermarsi. Per tutti quelli come loro che lottano in nome di una giustizia che deve esistere. Perché noi vogliamo che esista.

“La paura è normale che ci sia, in ogni uomo. L’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”
(Paolo Borsellino)

“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”
(Giovanni Falcone)

http://www.fondazionefalcone.it/

http://www.falconeborsellino.net


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