Pio La Torre, una vita contro la mafia

Per gentile concessione dell’autore
Franco Nicastro
pubblichiamo il capitolo del volume
Mafia e partiti – Il bifrontismo del Pci
dedicato a Pio La Torre

Pio La Torre è una magnifica espressione del mondo contadino al quale rimarrà sempre legato pur nella ricchezza della visione sociale, politica e culturale. Comunista ed uomo del Sud, egli ha dedicato una vita all’emancipazione dei lavoratori ed in particolare delle plebi rurali. La sua culla è stato l’agro palermitano. La sua famiglia dei contadini poveri. Il contatto quotidiano con le difficoltà dei braccianti costituisce il basamento del suo impegno politico.

Nasce a Palermo il 24 dicembre del 1927 nella borgata di Altarello di Baida-Boccadifalco. Nel 1945 si iscrive alla Facoltà di ingegneria dell’Università di Palermo e al contempo prende la tessera del Partito comunista. Inizia nel movimento giovanile e si dedica alla costruzione del partito in alcune borgate della città. Nel 1947 diventa funzionario della Federterra ed emerge come uno dei protagonisti dell’epica battaglia del movimento contadino per il superamento della struttura agricola feudale, arcaica e ingiusta, e la distribuzione delle aree incolte ai braccianti affamati di terra. In quest’impegno egli fa una delle esperienze più drammatiche della sua vita. Nel marzo del 1950, nel corso di uno scontro con le forze di polizia mentre dirigeva il movimento per l’occupazione delle terre nel Corleonese, viene arrestato, assieme a molti contadini e tenuto in carcere preventivo per diciotto mesi.

Alla fine dello stesso anno si svolge nel Pci un processo di tipo stalinista a seguito della tensione venutasi a creare tra la segreteria regionale, retta da Girolamo Li Causi, e la federazione di Palermo, retta da Pancrazio De Pasquale. De Pasquale è accusato di «complotto» frazionistico contro Li Causi, e dopo due giorni di processo del comitato regionale, ammette le sue «colpe», viene destituito e inviato a rieducarsi in una scuola di partito. A condurre l’inchiesta era stato un funzionario, Armando Fedeli. Ricordando la vicenda nel libro Comunisti e movimento contadino, La Torre scrive:

“Accadeva, cioè, che mentre imperversava la repressione poliziesca contro il movimento contadino palermitano, la segreteria regionale prendeva provvedimenti disciplinari contro De Pasquale. […] Dopo l’allontanamento del segretario di Palermo il Fedeli andava dicendo che noi giovani, che eravamo stati collegati con De Pasquale, non avevamo più avvenire nel partito. Una sera egli disse a mia moglie che era bene che io utilizzassi la permanenza in carcere per prepararmi la laurea, perché la mia prospettiva nel partito era incerta. Dopo il mio arresto e la destituzione di De Pasquale, si verificò la dispersione di gran parte dei giovani quadri emersi nel corso della lotta e la federazione palermitana attraversò un periodo di serie difficoltà. Una delle conseguenze fu che noi detenuti restammo di fatto per lunghi mesi privi di qualsiasi assistenza. […] I compagni di Bisacquino, detenuti insieme a me, soffrivano per la mancanza di assistenza da parte del partito”.

La cosa non può non richiamare il comportamento del Pci dell’anno precedente quando Giuseppe Alessi, al tempo presidente della Regione, annuncia in Ars (cioè a Sala d’Ercole, la sede del parlamento siciliano ndr) che le forze dell’ordine avevano scoperto e arrestato i responsabili della strage di Portella della Ginestra. Costatato che le sinistre avevano accolto la notizia con freddezza, se non con delusione, Alessi denuncia che «prima del giudizio, esponenti della sinistra si erano recati in carcere a confortare quei banditi, benché fossero rei confessi». Diversamente, La Torre e gli altri compagni vivranno dimenticati per molti mesi prima che il partito si ricordi di loro.

Uscito dal carcere, La Torre diviene segretario della Camera del lavoro di Palermo e, successivamente, segretario regionale della Cgil. L’impegno pieno di dirigente sindacale lo induce a cambiare facoltà e consegue la laurea scienze politiche. Dal 1952 al 1960 è consigliere comunale a Palazzo delle Aquile. Nel 1960 entra a far parte del Comitato centrale del partito. Nel 1962 è eletto segretario del Pci siciliano. La Torre (nella foto a sinistra una manifestazione della Cgil allora diretta da Pio La Torre: foto tratta dapiolatorre.it) raccoglie l’eredità di un partito che aveva perduto molta della sua credibilità con l’operazione milazziana. Per allestirla e mantenerla poi in piedi, il Pci si era alleato con i neofascisti del Msi ed i monarchici, aveva azzerato l’impegno contro la mafia, abbassato la guardia verso gli esattori privati delle imposte, accettato che si bruciassero nuove risorse finanziarie a beneficio dei più discussi gestori delle imprese estrattive, e, ancora, consentito che un suo esponente di primo piano fosse coinvolto nel già richiamato scandalo dei cento milioni.

Nei suoi scritti, La Torre è sempre critico nei confronti del milazzismo. Pur apprezzandone il valore di rottura del potere democristiano alla Regione, egli afferma che «lo schieramento di forze che si costituì attorno a Milazzo si dimostrò incapace per la sua insufficienza parlamentare e per la sua eterogeneità, di governare la Sicilia. Si manifestarono ritardi nel capire i limiti di quello schieramento e si alimentarono illusioni su quello che era possibile fare in quelle condizioni».

Critica poi l’esclusivismo industrialistico da cui il milazzismo era nato, che «faceva smarrire la portata e il significato delle lotte agrarie e quindi dell’organizzazione della iniziativa nelle campagne e anche degli stessi investimenti in agricoltura, visti non come fatto separato e assistenziale, ma come componente propulsiva di un processo più generale».

Peraltro, in Sicilia, il progetto industrialista era fallito per l’ignavia dell’imprenditoria locale, che non aveva saputo concretizzare le intuizioni del presidente della Sicindustria del tempo, Domenico La Cavera. La Cavera era stato promotore di una campagna intelligente – tramutatasi poi in una battaglia interna ed esterna alla Confindustria – che aveva avuto sbocchi interessanti nella legislazione regionale (legge sull’industrializzazione del 1957 e Sofis). E dire che ancora non era sorta la mafia imprenditrice a cui gli industriali siciliani – e non solo – fanno risalire le loro difficoltà e il mancato sviluppo economico dell’Isola. Del resto, il concetto di supremazia della classe operaia rispetto al mondo contadino – che in Sicilia era uno dei punti deboli della visione del Li Causi piovuto dal Nord, e ne caratterizzava l’arretratezza di analisi contestatagli da Pancrazio De Pasquale – lasciava perplessi non pochi dei dirigenti che avevano vissuto l’esaltante epopea contadina.

La nomina contrastata alla guida del partito. Alla segreteria regionale del Pci La Torre è dunque chiamato a ricomporre un tessuto morale e politico dilacerato, di cui sono segni inequivoci il calo di credibilità e un’altrettanto grave contrazione elettorale. Il nuovo corso da lui avviato prevede, dunque, in primo luogo, la liquidazione dell’apparato precedente. Tuttavia, per tamponare una situazione sempre più precaria, è costretto a cedere ai compromessi ereditati. La postazione da difendere è sempre quella della Sofis, assieme agli amministratori e ai dirigenti che hanno concesso ai comunisti il «certificato di residenza» nel suo articolato sistema: una Sofis, sotto inchiesta amministrativa regionale e nell’occhio del ciclone della grande stampa nazionale e locale – che non mancano di individuare nel Pci responsabilità per la sua fallimentare gestione –, ed ormai prossima alla liquidazione e alla trasformazione in ente pubblico regionale (Espi).

Nel 1967, quando La Torre lascia la segreteria, il partito non si è rimesso ancora dal trauma milazziano ed il gruppo parlamentare è allo sbando. L’Unità scrive che nel periodo La Torre «non si limitò soltanto all’opera di costruzione del partito nella regione». Nonostante l’ampiezza e la qualità del suo impegno non si può dire che sia stata una stagione felice per il Pci. In democrazia la validità di una politica si misura in primo luogo con il consenso, e a conclusione del mandato di La Torre, il partito è meno forte di prima. Infatti, alle elezioni regionali del 1967 si ritrova con 45.152 voti in meno rispetto al 1963 (da 560.795 a 515.643), perde 1,95 punti percentuali (dal 24,08 al 22,13) e due seggi (da 22 a 20 seggi). Ne viene fuori un gruppo parlamentare disorientato che induce la direzione del Pci a inviare da Roma Pancrazio De Pasquale per registrarne come presidente la linea.

Deputato regionale per due legislature, dal 1963 al 1971, La Torre passa a Montecitorio nel 1972. Alla morte gli subentrerà Domenico Bacchi, coordinatore dell’ufficio di segreteria del comitato regionale del partito e devoto amico. Nel partito ricopre con passione e competenza numerosi incarichi. È dapprima vice-responsabile della sezione agraria, successivamente responsabile della sezione meridionale. Nel 1979 entra nella segreteria e nel 1981 nella direzione.

Alla Camera fa parte delle commissioni Bilancio e programmazione, Agricoltura e foreste, nonché della Commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi straordinari del Mezzogiorno.

Membro della Commissione antimafia, va oltre l’antimafia «etica ed epica» di Li Causi, protesa ossessivamente alla ricerca delle responsabilità politiche, trascurando spesso la mafia vera. La Torre, con visione moderna e concreta, ricerca gli strumenti legislativi che possano colpire gli interessi di Cosa nostra e dare sostanza all’impegno di lotta delle istituzioni.

Anche se 1976, nella relazione conclusiva di minoranza, egli non esita a segnalare i nominativi dei
politici che a suo giudizio erano esposti con la mafia. E indica i fanfaniani di Palermo come espressione somma del rapporto mafia-Dc, addebitando in particolare a Salvo Lima e a Vito Ciancimino di essere gli autori del sacco edilizio della città e di avere reso Palazzo delle Aquile permeabile all’influenza mafiosa.

Ma proprio nello stesso periodo i comunisti palermitani concordavano con Lima e Ciancimino un programma per l’amministrazione della Città. L’intesa si protrasse per tre anni. Ed è fuor di dubbio che la vicenda si inquadri negli «offuscamenti dopo il ‘76, che – dice La Torre – il Pci ha pagato con i risultati del ’78-’79». Durante il suo periodo romano non interrompe mai il collegamento con il partito in Sicilia. («È come me un siciliano all’estero»: diceva scherzosamente di lui Feliciano Rossitto, per alcun tempo leader della Cgil siciliana).

Nel settembre del 1981, su indicazione della direzione, il comitato regionale del Pci elegge La Torre segretario in Sicilia. Egli – come abbiamo già detto – è visto come il punto di equilibrio tra le esigenze del vertice nazionale e le tensioni dei militanti locali. Il suo mandato è preciso: ridare ossigeno al partito, debilitato dal tonfo elettorale del giugno precedente.

Per rilanciarlo, La Torre imprime al lavoro ritmi frenetici, ore e ore di riunioni, assemblee di sezione, ristrutturazioni dell’apparato, alternando la novità alla continuità. Conosce La Sicilia per non afferrare il grande salto in avanti dell’economia e delle istituzioni e, pure, la nuova dimensione della mafia che vuole ora esercitare il dominio sull’economia e sulle istituzioni. Ed annuncia un progetto per adeguare il ruolo del partito alla nuova realtà sociale della regione. Un progetto che la morte assorbe nel buio della sua notte.

Compito di La Torre è pure tagliare i cordoni ombelicali dei compromessi maturati nel clima della solidarietà autonomistica. Più precisamente, come confida al giornalista Giovanni Ciancimino, deve «mettere ordine nel partito compromesso in affari illeciti». Infatti, nei comunisti siciliani è emersa un’anima affaristica che si consoliderà nel corso degli anni Ottanta con il coinvolgimento del Pci nei rapporti con il mondo imprenditoriale mafioso. Perciò la sua elezione non riscuote l’unanimità canonica del comitato regionale. È un segnale che complica il suo lavoro, lo rende ancor più difficile e lo costringe a lottare su due fronti, quello interno e quello esterno.

«Pio La Torre – scrive ancora Ciancimino – non era un sergente di ferro, bensì un uomo che andava deciso per l’affermazione dei suoi principi. Difficilmente accusava smarrimenti di percorso. Forse non si è reso conto che il suo impegno per fare pulizia, a differenza che negli anni Sessanta, quando da sindacalista e da politico fu un protagonista, questa volta cozzava contro un muro invalicabile»#.

Una delle ultime iniziative di La Torre è l’incontro, il 3 marzo 1982, col presidente del Consiglio Giovanni Spadolini al quale partecipa anche Rita Bartoli, vedova del procuratore Gaetano Costa, assassinato dalla mafia. La Torre presenta al presidente del Consiglio un promemoria che pone l’urgenza e la necessità di «istituire a Palermo una efficace struttura di coordinamento nella lotta alla mafia con compiti di indagine permanente e sistematica, opportunamente estensibili all’intero territorio nazionale ed anche all’estero». Riprendendo una richiesta più volte avanzata dai magistrati palermitani, La Torre chiede inoltre l’istituzione di «una banca dei dati sulle attività mafiose e sulla produzione ed il traffico della droga».

Dopo otto mesi di complessa guida del partito, La Torre è assassinato, suscitando anche l’ipotesi di una pista interna che, però, non troverà seguito. Il semplice sospetto, avanzato da alcune parti e su cui si soffermano anche gli inquirenti, è comunque il segno di una cedibilità ormai scossa. E dà un colpo decisivo alla tesi della «diversità» comunista.

Personalmente La Torre lascia un segno originale, irripetibile e irripetuto nella storia del Partito comunista in Sicilia. Scrive a ragione l’Unità: «Grande appassionato e competente fu, come sempre nella lunga e bella biografia politica del compagno la Torre, il suo impegno di dirigente politico, in primo luogo sui grandi temi della moralizzazione della vita pubblica e della pace».

Certamente con La Torre muore un uomo onesto, il miglior prodotto del comunismo siciliano del dopoguerra, un uomo di cultura e di azione, un politico attento ai movimenti della società che si rinnova, in un partito che al di là delle apparenti evoluzioni, rimane imbalsamato negli schemi e nelle analisi ideologiche.

Il 30 aprile 1982 l’agenzia di stampa Ansa batte questa drammatica notizia:

“La Torre, segretario regionale del Pci, è stato ucciso. L’agguato è stato teso da un commando composto da diverse persone a breve distanza da un palazzo del Settecento dove hanno sede il comitato e la segreteria regionale del Pci, situato di fronte all’ospedale militare di Palermo. Sul luogo sono confluiti ingenti mezzi della polizia e dei carabinieri e posti di blocco sono stati istituiti in tutte le vie di uscite della città, soprattutto all’imbocco dell’autostrada per Catania. Numerosi esponenti politici ed in particolare i dirigenti comunisti siciliani sono giunti in via Cuba. Nell’ultimo congresso regionale del Pci, Pio La Torre, che era deputato alla Camera, era stato eletto segretario regionale per la Sicilia. L’altra persona uccisa nell’agguato con Pio La Torre, è il suo autista, Rosario Di Salvo, trenta anni, sposato con tre figli”.

La notizia dell’uccisione di Pio La Torre è giunta a Palazzo Chigi mentre stava cominciando l’incontro tra il presidente del Consiglio Spadolini e i sindacati. La notizia ha suscitato una profonda impressione tra i sindacalisti anche perché La Torre era stato impegnato nel sindacato. Il segretario generale della Cgil, Luciano Lama, ha immediatamente lasciato Palazzo Chigi per recarsi alla sede della direzione del Pci alle Botteghe Oscure per cercare di avere notizie più precise. Visibilmente commosso il leader della Cgil ha detto: “Era un bravo compagno, fortemente impegnato nella lotta contro la mafia, e credo che questo delitto si possa inquadrare nell’ambito di questa lotta”. “Ritengo che anche questo delitto gravissimo dimostri che l’attacco eversivo in Italia non possa considerarsi concluso nonostante i successi ottenuti negli ultimi tempi dalle forze dell’ordine”.

Appena informato dell’assassinio di Pio La Torre il presidente del Consiglio Spadolini, ha avvertito il presidente della Repubblica e si è messo in collegamento con i presidenti della Camera e del Senato. Il presidente del Consiglio ha telefonato al segretario del Pci, on. Berlinguer, per esprimergli il profondo cordoglio del governo. Spadolini ha telefonato anche a tutti i segretari dei partiti della maggioranza. Prima dell’inizio dell’incontro governo-sindacati, Spadolini ha pronunciato un breve discorso di cordoglio, in cui, interpretando il sentimento di tutti i presenti, ha ricordato che, dopo l’assassinio di Moro, è la prima volta che un deputato della Repubblica viene assassinato. Spadolini ha sottolineato l’azione costante del parlamentare siciliano nella lotta alla mafia e a tutti i fenomeni degenerativi contro i quali l’iniziativa del governo era stata particolarmente dura e inflessibile negli ultimi mesi. L’incontro governo-sindacati è stato brevemente sospeso. Secondo quanto si è appreso a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio ha convocato per le ore 12,30 di oggi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nuovo prefetto di Palermo (nella foto a destra tratta dacrimenews.it).

L’agguato al segretario regionale del Pci e al suo autista è scattato in piazza generale Turba, dove l’ampio spazio si restringe in una stretta appendice, parallela al più congestionato corso Calatafimi, all’angolo di via Cuba. La Fiat 131 grigio metallizzata è stata bloccata davanti ad alcune vecchie case disabitate, di fronte al muro perimetrale della caserma dell’Esercito “Sole”. I sicari per compiere il delitto hanno probabilmente utilizzato un fucile mitragliatore: sull’asfalto i tecnici della polizia scientifica hanno infatti trovato non meno di 30 bossoli. Presumibilmente, per bloccare l’automobile dell’on. La Torre sono stati sparati alcuni colpi sul parabrezza, dove sono stati rilevati alcuni fori di proiettili. A questo punto i killer, certamente più di tre, hanno affiancato entrambi gli sportelli anteriori della 131, sparando a raffica. L’esponente comunista è stato colpito alla testa e la forza d’urto delle pallottole lo ha scagliato sul grembo dell’autista, mentre la sua gamba destra si è distesa fuori dal finestrino.

Rosario Di Salvo ha tentato una reazione, facendo fuoco con la sua pistola, una calibro 38, ma è stato fulminato al volante. Gli assassini sono fuggiti su una Fiat Ritmo, trovata incendiata a un centinaio di metri di distanza. Sembra accertato che del commando facessero parte anche due persone che si sarebbero allontanate su una motocicletta di grossa cilindrata che non è stata rintracciata. Il duplice omicidio non avrebbe avuto testimoni, anche perché la strada, nonostante sia incuneata in una zona densamente trafficata, è relativamente poco battuta. L’on. La Torre stava andando alla sede del partito, in corso Calatafimi. Gli investigatori ritengono che abbia preso la stretta scorciatoia per evitare la circolazione caotica di corso Calatafimi. Gli assassini avrebbero costretto l’autista di La Torre a fermarsi imboccando la via Turba in retromarcia: la strada è a senso unico e quindi Rosario Di Salvo ha dovuto frenare improvvisamente. Compiuto il duplice omicidio, i sicari, dopo avere bruciato la Ritmo, hanno probabilmente utilizzato un’automobile “pulita” per allontanarsi verso corso Pisani, una via che immette in viale della Regione Siciliana, la circonvallazione di Palermo.

Carlo Alberto Dalla Chiesa si reca immediatamente a Palermo per un breve, drammatico soggiorno senza ritorno.

Il cordoglio è unanime. Il 1° maggio in tutta Italia la celebrazione della Festa dei lavoratori è dedicata al leader scomparso, e si alterna ad assemblee nelle fabbriche ed a manifestazioni di protesta indette dal partito. Così come per Piersanti Mattarella, voci di condanna dell’esecrabile delitto si levano da ogni parte: dal capo dello Stato, dai partiti, dalle istituzioni parlamentari e di governo, dai palazzi di Giustizia, dagli organismi di categoria, dalle amministrazioni locali, dai settori più sensibili della società civile. E dalla Chiesa.

L’arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo (nella foto sotto a sinistra tratta da crisidellachiesa.com) che dalla Cattedra di S. Mamiliano ha avviato da qualche tempo un’opera di condanna sistematica della catena di violenza che insanguina il Paese, con il terrorismo politico, e la Sicilia, con la mafia  dichiara:

“Non ho che da rinnovare l’esecrazione che gli altri assassinî e le altre violenze hanno provocato, commesse verso varie direzioni e variamente motivate. Gli assassinî e gli omicidi non sono suscettibili di colorazione: è questo un nuovo grave fatto di sangue che si affianca ad altri gravi in Sicilia ed in altre regioni d’Italia, una catena che pare ininterrompibile di delitti, che fanno aumentare la preoccupazione, il lutto e il pianto delle famiglie rimaste prive dei loro cari, non soltanto perché cadono esponenti di determinati partiti o movimenti con responsabilità di alto livello, ma anche perché cadono, come ancora in questa occasione, dei lavoratori, che prestano la loro opera. In questo caso c’era l’autista e questo coinvolge anche la famiglia, come in tanti altri casi. Vedo quindi la necessità di respingere, con lo spirito e con lo sdegno che non si riduca soltanto a parole, ma con l’atteggiamento di tutta la vita, tutto quello che è violenza nel nostro Paese».

Il Comitato unitario antimafia. Nessuna rivendicazione del delitto, nemmeno per depistare le indagini. La firma vuole essere certa ed ammonitoria: la mafia. Il silenzio comprova la sensazione che si è diffusa immediatamente sulla matrice mafiosa come vendetta esemplare contro un uomo che, muovendosi sul terreno dell’azione politica e legislativa, ha intralciato specifici interessi di Cosa nostra. E ad essa si fa risalire anche quando si pensa che ci possa essere qualche connessione con la battaglia di La Torre contro l’installazione dei missili americani a Comiso, in provincia di Ragusa.

Le esequie ufficiali si svolgono in un clima drammatico. Il discorso del presidente della Regione, Mario D’Acquisto, democristiano, è accolto da una bordata di fischi, anche quando questi propone «iniziative unitarie» di tutti i partiti per fare fronte all’escalation della mafia. La proposta di D’Acquisto si sintonizza con quella del presidente dell’Assemblea, Salvatore Lauricella che parla di «patto». Fausto De Luca, direttore del Giornale di Sicilia, ammonisce i comunisti a non farsi prendere ancora una volta dalla tentazione di avere l’esclusiva nella lotta alla mafia.

Benché frastornato, il Pci ragiona. Il nuovo segretario regionale, Luigi Colajanni, ed il partito in genere, pur manifestando comprensione per la reazione della piazza#, si dichiarano disponibili ad un’intesa, purché ne siano al più presto chiariti i contenuti.

“Alla commissione Giustizia della Camera – dice Colajanni – giace una proposta di legge, primo firmatario La Torre, che riorganizza le leggi sulla mafia. Si prevede fra l’altro, l’introduzione nel codice penale e nella procedura di alcuni strumenti come il reato di associazione mafiosa e l’accertamento patrimoniale, sugli arricchimenti sospetti. Perché non chiediamo che questa proposta venga discussa al più presto?”.

L’intesa si traduce nel «Patto di solidarietà civile fra le forze democratiche per la sicurezza delle istituzioni» sottoscritto il 25 maggio 1982 fra Assemblea, governo, partiti e sindacati e la costituzione del «Comitato unitario per la lotta contro la mafia», la cui presidenza è affidata al presidente comunista dell’Ars, Michelangelo Russo. La proposta richiamata da Colajanni viene definita legislativamente un anno dopo, sulla scia emotiva dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il provvedimento prende il nome Rognoni-La Torre: l’uno democristiano l’altro comunista. La legge costituisce tuttora uno dei capisaldi dell’iniziativa antimafiosa dello Stato, e per la Sicilia la più proficua opera consociativa che si sia avuta.

Nel 2006 i giudici della Corte d’assise, accogliendo la ricostruzione dei pm Di Matteo e Gozzo, condannano all’ergastolo i killer Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese come esecutori dell’assassinio di Pio La Torre e dell’autista Rosario Di Salvo. Spiegano che il segretario del Pci aveva sollecitato «iniziative antimafia attraverso contatti personali e incontri riservati con autorevoli esponenti di governo, il presidente del consiglio Spadolini e il ministro dell’Interno Rognoni» in cui caldeggiava la costituzione di una struttura di coordinamento nella lotta alla mafia e i sequestri dei patrimoni illeciti.

La Torre, quindi, «non era solo una minaccia potenziale per gli equilibri politico-mafiosi, era di pesante ostacolo». I giudici ammettono che l’azione del segretario portò «dissensi e mugugni da parte di qualche esponente locale del Pci». Ma, secondo la sentenza, «i vertici del partito erano i più aperti sostenitori di La Torre, anche nella sua opera di eliminazione di qualche ramo secco all’interno del partito».

Foto di prima pagina di Pio La Torretratta da giovanicomunisti.it

 

Foto che ritrae la pagina del quotidiano L’Ora di Palermo tratta da liberainformazione.org


 


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