Dettagli, ricordi, storie, del prima e del dopo. Di quando il direttore del Giornale del Sud e poi dei Siciliani era vivo. E dei giorni che vennero dopo il cinque gennaio del 1984, quando la mafia lo uccise. Raccontati dall'alternarsi delle voci di due dei suoi giornalisti, il figlio Claudio e Michele Gambino, nel libro Prima che la notte, presentato ieri alla libreria Feltrinelli
Pippo Fava nei racconti dei suoi carusi «Con la sua morte finì la nostra giovinezza»
Una staffetta. Claudio Fava e Michele Gambino si passano ricordi, aneddoti, emozioni come gli atleti si passano il testimone. Raccontano di quando Pippo Fava, il loro direttore, li guidava nell’avventura del Giornale del Sud e poi dei Siciliani, e di cosa è successo dopo che la mafia lo ha ucciso, il cinque gennaio del 1984, facendoli da carusi – ragazzi – diventare uomini. Per presentare il loro libro Prima che la notte, ieri, nella sala affollata della libreria Feltrinelli di via Etnea, le loro voci si sono alternate come i racconti sulle pagine del volume.
«C’è un prima e un dopo in questa storia», dice Claudio Fava, e il giorno che fa da spartiacque è quello della morte di suo padre, che si portò via anche la loro giovinezza. Il giornalista e uomo Pippo Fava è in ogni pagina del loro racconto che non vuole, però, tornare sulle ragioni per cui la mafia lo ha assassinato, sul tentato depistaggio, sulle connivenze e compiacenze che hanno protetto i suoi assassini, su cui tanto è stato scritto e detto. Nel libro si dà spazio ai carusi e il direttore è raccontato attraverso i loro occhi, ricordi ed emozioni, «ricostruendo il filo dei dettagli che si erano perduti», spiegano Fava e Gambino. «Dopo 30 anni ci si prende il lusso di scrivere non solo i fatti, ma anche quello che i fatti hanno lasciato», aggiunge il figlio del direttore dei Siciliani.
A combattere quella battaglia con loro e a raccontare, come nessuno faceva, Catania e la Sicilia, c’erano anche Antonio Roccuzzo e Riccardo Orioles. «Il direttore per tenerci insieme – dopo il licenziamento dal Giornale del Sud e prima di cominciare con I Siciliani – si inventava una serie di cose, a volte abbastanza assurde, come il giornale in inglese Walkie talkie che vendevamo agli americani di Sigonella», racconta Gambino.
La platea ascolta con attenzione, in un silenzio interrotto da esclamazioni di sorpresa, dalle risate e sorrisi di chi annuisce riconoscendo persone e storie, e da applausi pieni di emozione. Come quando Claudio Fava racconta che la lettera alla quale il padre risponde, scrivendo il suo ultimo editoriale per il Giornale del Sud – quello sul concetto etico del giornalismo – in realtà non è mai esistita, o di quando Gambino ricorda i suoi viaggi col direttore a Roma per cercare i soldi per I Siciliani da «procacciatori falliti di pubblicità». E mentre Fava rivela di quando dopo l’omicidio andarono a comprare una pistola, Gambino sorride ripensando a quella volta in cui si misero a sparare in campagna, per poi scoprire che non molto lontano dai loro bersagli fatti di lattine c’era una strada piena di automobilisti terrorizzati. «Non l’abbiamo raccontata neanche nel libro questa storia, dovevi proprio dirla?», scherza Fava.
I ricordi dei due giornalisti sono densi e vivi e il loro modo di raccontare permette alle immagini di scorrere davanti agli occhi di chi li ascolta o legge. Così si vede Riccardo Orioles, nel vestito buono col fiore all’occhiello, arrivare con mezz’ora di anticipo in piazza Duomo all’appuntamento per andare dal notaio a firmare le carte per la cooperativa che permise la realizzazione dei Siciliani. Per poi andarsene perché nessuno arrivava. «Andate. Io non vengo», risponde a Fava e a Gambino quando lo trovano sdraiato sul letto della pensione che lo ospitava. «S’era offeso. Non perché l’avevamo fatto aspettare ma perché non avevamo capito la solennità di quel giorno», scrive Fava. «Ma quella volta aveva ragione lui, aveva capito che stava cominciando una storia diversa, non più nostra, non solo nostra, che la decisione di farci il giornale da soli, senza padroni, senza editori, di prenderci il vento in faccia pur di raccontare le cose che andavano raccontate cambiava tutto. Quella mattina non andavamo a porre solo un sigillo sulle carte di un notaio ma sullo spirito delle nostre esistenze».