Il primo annuncio è arrivato pochi giorni fa, durante un incontro informale. La ditta fondata dalla famiglia Circo ha deciso di spostare la produzione dei gadget pubblicitari e di tenere attiva in Italia solo la sede commerciale di Milano. «Lotteremo per non far morire questo pezzo di storia del territorio»
Zona industriale, licenziamento collettivo alla Cipi «L’azienda non è in crisi, ma delocalizza all’estero»
Chiude lo stabilimento produttivo di Catania della Cipi, un’azienda che si occupava di realizzare gadget a livello industriale, ex colosso del settore adesso in crisi. «Siamo stati avvisati un paio di giorni fa, durante un incontro informale di giovedì pomeriggio – spiega a MeridioNews il segretario regionale Fistel Cisl, Antonio D‘Amico – e la sentenza è stata quella del licenziamento collettivo per la totale chiusura senza soluzioni alternative del sito catanese». Settantacinque giorni circa e poi cinquantacinque persone si ritroveranno senza lavoro. Rimane solo la sede centrale commerciale di Milano che ha deciso di delocalizzare la produzione all’estero, in luoghi dove il costo del lavoro è più basso.
Fondata nel 1964 dall’imprenditore catanese Rosario Circo, l’azienda è stata oggetto di diversi passaggi di proprietà tra la vecchia Seat Pagine Gialle e la stessa famiglia Circo rientrata definitivamente nel marzo del 2014 a seguito di una ristrutturazione che ha comportato la cassa integrazione per alcuni e il licenziamento del 50 per cento del personale in forza a Catania. «La crisi ha investito anche questo settore e le aziende hanno cominciato a limitare o abbandonare i gadget. Sono stati anni difficili e densi di sacrifici, anche e soprattutto economici, per i dipendenti catanesi. È vero che l’azienda ha avuto un percorso martoriato – conferma D’Amico – ma i lavoratori, che si sono sempre saputi accontentare e sacrificare, adesso non reggono più».
Cipi, presente sul territorio da oltre 50 anni, rappresenta oggi una delle principali realtà italiane nel settore dell’oggettistica promozionale. In sostanza, la ditta promuove e produce oggetti come penne, tazze, borse, agende per aziende locali, nazionali e anche per grandi marchi internazionali. Con un fatturato in aumento del 40 per cento rispetto al 2016, oggi l’azienda esprime «cordoglio per una necessaria chiusura della filiera produttiva della sede catanese a causa dell’alto costo del lavoro e delle tasse da versare per mantenere in attività l’organico e la struttura logistica». Restano due mesi di lavoro ai trenta dipendenti del settore produttivo e a una ventina fra amministrativi e dirigenti che rimangono ancora in attesa di ricevere comunicazioni ufficiali di avvio della procedura di licenziamento collettivo. In piedi restano i circa 20 lavoratori della sede centrale di Milano che avranno rapporti commerciali soltanto con l’estero dove si sposterà la produzione.
«L’imprenditore ci ha dato la notizia a malincuore sembra, anche se in modo tecnico parlando solo di numeri, perdite e costi del lavoro. Ci è stato detto che l’azienda più produce e più perde il che – specifica il sindacalista – è un assurdo controsenso. La sede di Catania funzionava perché ha una rapidità di produzione incredibile senza mai rinunciare alla qualità dei macchinari e dei lavoratori. Metteremo in atto tutti i mezzi di contrattazione e di mobilitazione – conclude D’Amico – per non far morire questo pezzo di storia del nostro territorio sperando che le istituzioni locali non restino mute di fronte alle proteste che faremo».
Grafici, serigrafi e magazzinieri. Tutte figure professionali molto formate. Alcuni di loro lavorano per la Cipi da quarant’anni. «Io sono una di quelle che qui c’è da meno tempo – racconta una serigrafa di 46 anni in azienda da oltre 18 – ma penso ai colleghi, tutti padri e madri di famiglia, fra cui ci sono anche quelli alla soglia della pensione ai quali mancano solo quattro o cinque anni di contributi e che difficilmente potranno trovare un’alternativa». Più di cinquanta famiglie, alcune delle quali monoreddito che, dall’oggi al domani si trovano ad affrontare una situazione di cui non avevano avuto nemmeno il sentore. «La rabbia – aggiunge la dipendente – è soprattutto dovuta al fatto di avere la consapevolezza del fatto che il settore è in recupero e l’azienda non sta fallendo ma ha semplicemente capito che può continuare l’attività commerciale con la sede milanese chiudendo la produzione qui e affidando il lavoro di stampa a Paesi dell’est Europa che hanno dei prezzi con i quali noi non riusciremo mai a competere».
Ore di straordinario non pagato, flessibilità totale negli orari di lavoro, il licenziamento di metà dei dipendenti: «Nulla è servito a niente, i nostri anni di sacrifici sono stati completamente inutili – commenta – Da questo momento ci troviamo nella situazione di un orologio che cammina a vuoto. Ma siamo ancora disposti a sacrificarci anche dal punto di vista economico, se ce ne sarà la necessità e continueremo in questi due mesi a presentarci regolarmente a lavoro organizzando però anche delle forme di protesta. L’obiettivo – conclude – è quello di attirare l’attenzione della famiglia dell’imprenditore Circo, delle istituzioni locali o di chiunque abbia la possibilità e la voglia di investire in questa azienda per darci la speranza di sopravvivere e di andare avanti nel nostro lavoro».