L’artista anglosiciliano racconta in un’intervista a MeridioNews del suo primo disco: i rapporti tra la musica e il teatro, la residenza a Indigo, la scelta del nome dell’album, la copertina con un quadro dipinto dal padre. Oggi la presentazione a La Feltrinelli di Palermo
Wollow, ecco l’album di esordio di Sergio Beercock Il titolo? «Filo conduttore poetico del nostro sound»
Attore teatrale e cantautore, inglese e siculo. Sergio Beercock, classe 1990, di padre inglese e madre siciliana, è un personaggio dalle imprevedibili sfaccettature: riservato e coinvolgente, introspettivo e poliedrico. Lo scorso 13 gennaio è uscito Wollow, il suo album d’esordio prodotto da 800A Records, realizzato durante un periodo di residenza presso lo spazio Indigo Music a Palermo e che verrà presentato nel capoluogo oggi alle 18.00 presso La Feltrinelli.
Undici tracce che raccontano in modo immaginifico e intimistico luoghi, ricordi, suoni e visioni della sua vita: Beercock svela per MeridioNews la storia, gli aneddoti e le curiosità sulla realizzazione del suo disco.
Dal teatro alla musica. Come è nato questo incontro?
«La musica e il teatro sono emerse nell’adolescenza dalla mia primaria attività, la scrittura. Non passa giorno senza che io scriva qualcosa, possa essere sotto forma di testo teatrale o di fraseggio musicale. Non ho mai smesso di fare teatro, neanche durante l’incisione di Wollow (Fabio Rizzo e Oriana Guarino di 800A Records mi hanno messo nelle condizioni di farlo, senza limiti). Questa forse è una delle caratteristiche del disco, uno di quei colori che lo rendono quello che è».
Hai suonato quasi tutti gli strumenti presenti nel disco, compreso il tuo corpo. Potresti spiegarci meglio cosa e come hai suonato?
«Sono arrivato a Indigo con l’auto carica di tutti gli strumenti che avevo a casa e di altri prestati da amici musicisti. Lo studio si è trasformato in un parco-giochi e io ho iniziato a giocare con tutto quello che avevo intorno. Gli strumenti presenti nel disco suonati da me sono: guitalele, chitarra acustica, mandolino, charango, pianoforte, synth, una valigia (invito gli ascoltatori a individuarla), darbuka, cajon, un pennello, tammorra, le mie gambe e il mio petto (in Lighthouse). Altri interventi sparsi sono di Fabio Rizzo (dobro e lap-steel), Federico Gueci (contrabbasso) e Donato Di Trapani (synth)».
Da dove nasce il titolo dell’album e cosa significa la parola Wollow?
«Una volta ultimato, non sapevamo come definire il disco e quale fosse il filo conduttore. Eppure il filo c’era, lo sentivamo: era un filo poetico, e si percepiva un denominatore comune nel sound complessivo. Era una cosa che non sapevamo chiamare: me la sono inventata. Parlandone con amici e cari, infine me lo sono spiegato: era il wollow».
Hai scelto come copertina un dipinto di tuo padre. C’è un motivo particolare? Come mai porti con te il quadro durante i tuoi live?
«Sono sempre tentato di dire cosa secondo me rappresenta il quadro di mio padre. Mi verrebbe da dire che si tratta di una cosa solida, eppure in tanti mi hanno detto che si tratta di un elemento naturale; altri ancora che se ne sentivano osservati. Proprio per la sua capacità di significare tante cose, posso dire che questa immagine – un grande olio su legno – è inequivocabilmente Wollow. Lo porto con me durante i concerti per permettere al pubblico di potersi perdere o trovare in quel viaggio, in quei colori, come faccio io quando vi suono di fronte e lo guardo. In quel quadro c’è tutto l’album».