Il seme del cambiamento. Timido, fragile e parecchio sporco di terra, ma è quello che pare stia attecchendo in questi ultimi mesi, dopo i più recenti episodi di violenza sulle donne. In principio, quest’estate, fu lo stupro di gruppo a Palermo. In questi giorni, il femminicidio di Giulia Cecchettin in Veneto. Due storie diverse – e per certi versi dalla narrazione opposta – che hanno però provocato entrambe un’ondata di reazioni mai vista. E inimmaginabile, fino a pochi mesi prima, da parte di quell’ampia e maggioritaria parte della società non impegnata nelle battaglie femministe o nell’attivismo sulle questione di genere. Reazioni non sempre compiute né certamente risolutive, ma che vale la pena di cogliere per tentare di capire verso dove stiamo andando e come tenere la rotta. Con strumenti nuovi o, quanto meno, con nuove domande, senza le quali nessun seme può germogliare.
«Eravamo cento cani sopra una gatta». Era luglio quando le parole di uno dei sette stupratori di una 19enne, a Palermo, fecero il giro dell’Italia. Online e offline. Storie sui social network, lunghi post di riflessione, discorsi intavolati per strada, al bar, ovunque si incontrasse qualcuno. In un momento in cui lo shock per la vicenda sembrava quasi equivalere ai giudizi sulla moralità della vittima, facendo pensare che tutto era ormai perduto, che l’umanità fosse ormai perduta, un lumicino si è accesso. Inaspettatamente, la maggior parte di quelle reazioni non veniva da donne. Per lo più ammutolite dal dolore e dalla narrazione pubblica sulla colpa femminile. A parlare, per la prima volta così numerosi, sono stati gli uomini. Va detto che la voce più forte e distinta è stata una sorta di difesa d’ufficio del genere maschile, al grido di un’ovvietà come «Non siamo tutti uguali». Ma già allora stupiva la volontà di prendere la parola, di interessarsi al tema, di riconoscersi – seppur in modo poco cosciente – non solo attori ma anche protagonisti dell’evento.
Sono passati appena quattro mesi e il femminicidio di Giulia Cecchettin a opera dell’ex fidanzato fa registrare uno scarto ulteriore. La narrazione è certo diversa: lei era una brava ragazza, l’aveva lasciato eppure se ne preoccupava ancora (questa storia l’abbiamo già sentita in molte). E lui era un bravo ragazzo: troppo normale per potersi dissociare con la stessa facilità dei protagonisti di Palermo. Ed è così che, ancora una volta, sentiamo e leggiamo levarsi un coro di voci. Quelle maschili spesso ingenue, non sempre azzeccate, un po’ emotive, a volte del tutto fuori strada. Ma con l’intenzione di esporsi sul tema: dando così la possibilità, anche davanti a ragionamenti dalle premesse sbagliate, di esporre dati, testimonianze e ragionamenti. Di trattare, insomma, il tema non in maniera unidirezionale e, soprattutto, parlando a chi stavolta vuol sentire.
E anche la voce appare più forte. Donne normali che mai come oggi – davanti ai consigli, ai distinguo, alle lezioncine – saltano lo steccato del recinto dove in molti ci vorrebbero confinare – per proteggerci, è ovvio – e dicono chiaramente: «Volete davvero continuare a spiegarci come dobbiamo vivere la nostra vita?». E sarà pure vero che le manifestazioni e i social non cambiano la sostanza. Ma è così che si mettono in moto i cambiamenti sociali duraturi. Non con le rivoluzioni improvvise, ma con le gocce continue, numerose e persistenti. Che poi, a dirla tutta, pure questa storia del non cambiamento concreto è, nella migliore delle definizioni, da vecchi tromboni: perché se le chiamate al numero di emergenza antiviolenza 1522 in questi giorni sono raddoppiate – da circa 200 a 450-500 al giorno -, beh, qualche effetto tangibile lo abbiamo. Di questo cambiamento io che scrivo e voi che mi leggete, scusate se ve lo dico, non vedremo mai il lento compimento. Ma sapere che siamo in marcia – e in lotta – dà speranza.
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