Toccano un collega? Bisogna «sminchiarli proprio». La gestione dei detenuti? «Sarebbe il caso di creare una squadretta di sei persone che appena succede qualcosa è a disposizione». Sono soltanto alcuni dei dialoghi finiti nell’inchiesta sugli agenti penitenziari del carcere Pietro Cerulli di Trapani. Una casa di reclusione – intitolata all’agente di custodia ucciso con modalità mafiose nel 1980 – che 40 anni dopo è stata trasformata in un circolo dell’inferno, in particolare per coloro i quali finivano in isolamento nel fatiscente reparto Blu e nelle cosiddette celle lisce, senza arredamenti e materassi. Un volgare quadro di violenze e atti di rivalsa con 46 persone indagate, di cui 25 sottoposte a misure cautelari – compresi gli 11 agenti finiti agli arresti domiciliari – accusati a vario titolo di tortura e di abuso d’autorità.
Per togliere il velo su quanto accadeva nel carcere sono state fondamentali le ricostruzioni di un detenuto. Telecamere nascoste, cimici e diversi riscontri hanno fatto il resto, facendo emergere una storia in cui all’ordine del giorno ci sarebbero state perquisizioni personali effettuate con modalità anonime e del tutto illegittime, almeno secondo i magistrati. I detenuti sarebbero stati denudati e costretti ad attraversare i corridoi mentre venivano colpiti con calci e pugni. In mezzo il lancio di secchi d’acqua misti a urina e l’utilizzo di modalità che sembrano ispirate alle scene di un film, ma che sarebbero state pura realtà. In alcuni dialoghi intercettati gli agenti dicevano di non essere propensi a utilizzare scudi e manganelli per la gestione dei reclusi. Meglio i «metodi artigianali» e cioè bloccare le mani dei detenuti con delle manette, avvolgere il corpo in un lenzuolo «e poi lo fracchi, tanto questo è nero e non si vede un cazzo», spiegava l’assistente Filippo Guaiana. «Modalità attuate non in modo estemporaneo – aggiunge il giudice per le indagini preliminari (gip) Giancarlo Caruso nell’ordinanza – ma come uno schema ricorrente e consolidato già utilizzato in passato».
«Sono stato circa nove mesi nel carcere di Trapani – racconta un detenuto agli inquirenti – Nell’isolamento Blu c’era un recluso che era un po’ aggressivo, ricordo che un giorno gli agenti lo hanno aggredito e poi lo hanno portato in una cella liscia (senza arredi e materasso nel letto, ndr). Vidi tramite uno specchio che due agenti lo tenevano e uno lo picchiava con pugni alle spalle mentre lo portavano in questa cella». L’uomo racconta anche quanto avrebbe subìto direttamente: «Ho chiesto se potevo usufruire del barbiere, perché mi volevo tagliare i capelli, ottenendo risposte evasive per giorni». Stanco dell’attesa, si sarebbe introdotto nella stanza degli agenti, pretendendo con la forza di avere tagliati i capelli. «Subito dopo – racconta – entrarono tre o quattro agenti. Un poliziotto basso, palestrato e calvo, mi ha preso per la maglietta e mi ha tirato un pugno. A quel punto presi una radio trasmittente e l’ho colpito alla testa. Il resto degli agenti mi ha aggredito e io mi misi a terra per parare i colpi». Un altro detenuto ha raccontato di essere stato picchiato, sempre nella cella numero 3 del reparto Blu, e – senza essere mai stato visitato – avrebbe trascorso 14 giorni all’interno della stanza. L’uomo riferisce a verbale anche del presunto utilizzo, da parte degli agenti, di un corpulento detenuto africano per picchiare gli altri detenuti.
In un dialogo intercettato l’indagato Antonino Fazio sembrava spingere per un’azione nei confronti di un detenuto che aveva aggredito un agente: «Lo andiamo a sminchiare a questo… le secchiate d’acqua… fa caldo, piacere gli facciamo». Subito dopo, Fazio sembrava stilare un vero e proprio modello di comportamenti da adottare. «Al detenuto gli si devono dare legnate – spiegava – e mentre si ci danno si ci dice sempre “i colleghi non si toccano“. A Ivrea facevamo così noi… appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio». Stesso trattamento da riservare al personale medico che si metteva in mezzo. Per Fazio sarebbe stato addirittura il caso di creare una «squadretta di sei persone: appena succede sono a disposizione… appena succede qualche cosa saliamo nel reparto».
Un detenuto, terminata la doccia, avrebbe distrutto un televisore con un pugno dopo essere entrato nell’ufficio agenti del reparto. Episodio che scatenò la reazione delle guardie, che si occuparono di punire il recluso, pestandolo. Sentita dagli inquirenti, la vittima ha raccontato quanto subìto, sottolineando pure di non essere mai stato visitato dopo le percosse subite. Un detenuto – a quanto pare psichiatrico – che anziché essere assistito, sarebbe stato «umiliato», tanto da fare ipotizzare nei suoi confronti il reato di tortura in un contesto «di totale disprezzo, tale da trasformare il dovere di cura in un’occasione per infliggere sofferenze e umiliazioni». Nell’elenco delle contestazioni sono finiti anche diversi verbali che sarebbero stati falsificati dalla polizia penitenziaria. Relazioni di servizio scritte ad arte, secondo le accuse, in cui le aggressioni da parte degli agenti venivano nascoste e descritte a tavolino come reazioni alla violenza dei detenuti. Un detenuto di origine tunisina sarebbe stato bloccato durante una rissa con un altro recluso, poi – prima di essere riportato in cella – sarebbe stato picchiato con calci e pugni, dopo essere stato spinto contro un muro dagli agenti. Scene di violenza che sono state tutte immortalate dalle telecamere nascoste piazzate dagli investigatori. In questo caso nella relazione di servizio il ricorso alla violenza venne giustificato come una reazione a un’aggressione, a quanto pare mai avvenuta.
Tra le vicende ricostruite dall’inchiesta c’è anche la rivolta, che ha riguardato diverse carceri italiane, durante la pandemia da Covid-19. A Trapani il centro della sommossa fu il reparto Mediterraneo: era il 10 marzo 2020. I rivoltosi riuscirono pure a raggiungere il tetto, esponendo diversi striscioni, mentre gli elicotteri controllavano la situazione dall’alto. A sommossa rientrata vennero accertati danni per 212mila euro, con numerosi detenuti che vennero tradotti in altri istituti a bordo di mezzi della penitenziaria. Un detenuto ha raccontato che per salire a bordo bisognava prima attraversare un corridoio formato da decine di agenti, che avrebbero colpito le vittime con calci e pugni. «Mi hanno colpito sia in testa che nel resto del corpo», racconta. Colpi talmente forti che, stando alla sua versione, gli avrebbero causato la progressiva perdita della vista da un occhio. Ricostruzione che però non ha convinto il giudice, essendo che la degenerazione alla vista sarebbe avvenuta soltanto a tre anni dai fatti denunciati.
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