Vicolo Pipitone, viaggio nell’ex scannatoio della mafia «Nessuna domanda o qui ti prendono a male parole»

La pima cosa che ti accoglie, una volta svoltato a destra da via Simone Gulì, è uno strano odore. È pungente, acre, così forte che più che sentirlo dentro al naso ti pare di averlo subito addosso, sui vestiti, sui capelli, dappertutto. Un benvenuto che sembra quasi volerti mettere in guardia e che non se ne va anche dopo ore trascorse lì dentro. È questa l’accoglienza in vicolo Pipitone, l’ex scannatoio usato dalla mafia negli anni ’80 e ’90 che oggi sembra un luogo quasi sospeso nel tempo, una parentesi a parte che si autoesclude da tutto il resto, a pochissimi metri da quella stessa via Gulì da cui sei arrivato un attimo prima. Bastano pochi passi per scoprire che in circolazione non c’è praticamente nessuno, fatta eccezione per due uomini, entrambi sulla trentina, che per tutto il tempo passeggiano dentro al vicolo, senza uscire mai dai quei confini che – a guardare loro due – ti sembrano disegnati. Ogni tanto si fermano, appoggiati a uno scooter o al portone di una palazzina, e osservano verso l’ingresso. A pensar male, somigliano alle vedette usate dalla mafia in quegli anni in cui proprio lì ci ammazzavano la gente e si decidevano efferati omicidi. Come fossero a guardia del vicolo. O, forse, sono solo persone senza di meglio da fare in un pomeriggio di sole, se non fare avanti e indietro per quella stretta via.

«Ma quale scannatoio, quale mafia, lì fino a qualche anno fa ci viveva mia nonna, ci stava anche negli anni ’90, era una bella casa, c’era pure il terrazzo», dice sorridendo uno dei due uomini che passeggia nel vicolo. Lo stesso vicolo più volte raccontato da Vito Galatolo, che lì dentro c’è cresciuto. «Si arriva in fondo e poi ci sono delle casette vecchie e poi il nostro fabbricato, un palazzo di cinque piani tutto dei Galatolo, con dietro il giardino di proprietà nostra e prima di entrare nel palazzo c’è di lato una casetta, l’abbiamo sempre avuta noi, ci dormiva mio zio scapolo, tutte le riunioni le abbiamo sempre fatte là: Riina, Provenzano, passavano tutti da là. Gli omicidi di Dalla Chiesa e di Chinnici sono partiti da là», diceva l’ex boss dell’Acquasanta ai magistrati nisseni che lo hanno ascoltato un mese fa. «Vedevo tutti quelli che entravano e che uscivano, io e i miei cugini dovevamo badare a tutto, mentre dentro alla casuzza di vicolo Pipitone si facevano omicidi, anche quindici al giorno, si soppressavano le persone là; noi non lo sapevamo che stavano uccidendo le persone, ma poi abbiamo letto i giornali». Dov’è questo fabbricato di cui parla Galatolo? Cosa ne rimane oggi? «No, non è questo, non c’entra niente», insiste l’uomo che passeggia nel vicolo. Nessuno di quegli edifici abbandonati e diroccati sembra essere stato l’antico teatro di questi fatti di sangue.

Eppure, superate le case basse, tra costruzioni semi distrutte e altre recentemente recuperate e abitate, quel palazzone di cinque piani targato Galatolo è ancora lì, in fondo alla strada, girando a sinistra per il cortile Pozzo. Della casuzza descritta dal boss pentito però non sembra esserci più traccia, a sentire l’uomo nel vicolo. Un edificio che sembrerebbe avere tutte le caratteristiche giuste nei suoi racconti diventa l’amorevole casa di sua nonna, qualcosa di diverso da un macello di Cosa nostra. E tutto intorno a farla da padrone è un degrado fatto di un furgone Kangoo bruciato lasciato lì a marcire o da quello che un tempo forse è stato un vecchio autobus, oggi con vistosi fori sul parabrezza, che sembra posteggiato lì da sempre. Di quella casetta davanti al palazzo ancora oggi dei Galatolo, però, dove si facevano «riunioni e mangiate», a sentire anche i racconti di Giusi Galatolo, nessuno sembra voler ricordare nulla. «Lo vedi qua? C’era una casa che è crollata nel 1998. Eh…io è 35 anni che sto qua, ci sono nato qua». Riprende a dire l’uomo a passeggio per il vicolo. Praticamente, un po’ come Vito Galatolo, nato e cresciuto anche lui lì dentro. Ma mentre mi indica vecchie palazzine mezze diroccate e altre avvolte dalle impalcature di una recente restaurazione ancora in atto, noto che a forza di passeggiare mi sta conducendo fuori dal vicolo. «Ti posso dire che quella casa là alla punta è irrecuperabile, tutta diroccata. C’ha una sua storia questo vicolo – ammette a un certo punto – ma io non posso raccontarti niente». E, infatti, ricomincia: «Qua c’era fino a qualche anno fa una palazzina all’in piedi, è crollato tutto. Quest’altra palazzina all’inizio del vicolo la stavano ristrutturando e poi hanno fermato i lavori, non so perché». Nessuno fa capolino e il sottofondo è un abbaiare ossessivo di cani.

Le mie domande restano aperte. Come lui rimane evasivo. «Non sono io la persona adatta per dirti queste cose». Ma non c’era nato dentro quel vicolo? «Cerca nei libri, cerca su Google – suggerisce -. Non esiste più niente». Quindi non ci vive nessuno? «No, in quelli che dici tu non ci sta nessuno e non c’è più niente, è finito tutto. Anzi che io sto parlando, perché se tu vieni qui… se chiedi, per dire, cose di mafia, chi c’era, chi non c’era, non ti danno retta, è inutile. Puoi parlare di tutto, tranne che di questi discorsi». Ma perché, se è tutto finito? «Non ne posso parlare – ripete -. Se tu esci dal vicolo ne trovi altri di edifici interessanti, qua davanti c’è l’ex Manifattura Tabacchi, girando l’angolo il cimitero degli inglesi, sempre in zona trovi anche l’ex mensa Fincantieri». Insomma, si sta impegnando davvero molto per fare in modo che mi interessi ad altri luoghi. Vanno bene tutti, fuorché non torni dentro al vicolo a fare domande. «Non chiedere – insiste lui -. Non dire queste cose perché ti dicono subito di andartene. Ci sono persone che ti risponderebbero pure male. A male parole ti prendono. Se tu vuoi sapere delle cose ci sono i giornali. Qui in zona ci sono cose più interessanti di questo vicolo da raccontare».  

Silvia Buffa

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