Viaggio nel «percorso pulito» di Malattie infettive «Raccontate pure questo, la fatica che facciamo»

«Come sta?». Dopo un’ora nel reparto di Malattie infettive dell’ospedale Garibaldi Nesima di Catania, non si sa bene come rispondere alla domanda. Sono passate da poco le 14 e sono entrata lì un paio di ore prima, accompagnata da Bruno Cacopardo, primario, infettivologo e docente universitario. L’hospice del nosocomio cittadino è stato quasi interamente destinato all’accoglienza dei malati di Covid-19. I pazienti oncologici sono stati trasferiti per fare posto a chi ha contratto il nuovo coronavirus. Quando entro, i ricoverati sono 31. Sono quelli che non hanno bisogno della Terapia intensiva: questi ultimi sono al Garibaldi centro, in piazza Santa Maria di Gesù

In tutto l’hospice di Nesima, il personale sanitario indossa mascherine e guanti, anche nel «percorso pulito». Viene chiamato così per distinguerlo dal «percorso sporco», cioè quello contaminato. Per dirla più semplicemente: nel reparto, le aree in cui circola tutto il personale sono distinte da quelle in cui si trovano i malati. Al primo piano, uno degli ingressi all’area con i ricoverati è sigillato con il nastro di plastica bianco e rosso, perché ci si può accedere dalle scale. La «zona rossa» non si può attraversare (e non lo farò neanche io). Ma si può provare a immaginare come si sentono medici, infermieri e operatori socio-sanitari che lavorano a diretto contatto con i contagiati dal nuovo coronavirus ospedalizzati.

Prima ci si veste. In una delle stanze del percorso pulito sono impilati uno sull’altro diversi scatoloni. Sono mascherine di diverso tipo (filtranti e chirurgiche), guanti, tute, occhiali, caschi. Bisogna indossarli in ordine. Prima un paio di guanti, poi la tuta, i calzari, che sono un po’ come degli stivali di tessuto idrorepellente, che arrivano fino a sotto al ginocchio e lì si legano, sopra la tuta. Poi la mascherina e gli occhialoni di protezione. Si chiude il cappuccio sulla testa, si stringe tutto e poi si indossa il secondo paio di guanti. Per sigillare la tuta. Nella stanza c’è uno specchio per controllare che tutto sia al posto giusto, quando ci si mette lì davanti ci si accorge che di scoperto non è rimasto nulla.

«Gli occhiali da vista, sotto agli occhialoni, si appannano un po’», avverte il personale. «Io li tolgo, perché non mi mancano troppi gradi e ci vedo anche senza», dice un medico. Li toglie anche perché, dietro alle protezioni per gli occhi, fanno male. È un po’ come indossarci sopra una maschera da sub, sotto a cui si incastra la mascherina per proteggere naso e occhi. Il corridoio si apre su alcune stanze: una è una sorta di regia. Ci sono i materiali per i pazienti, i caschi cpap per la ventilazione, i walkie talkie con i quali chi lavora nel percorso pulito comunica con chi, invece, è nel percorso sporco. Un altro modo è un interfono, piazzato all’esterno delle stanze a pressione negativa, ma per quello bisogna essere già vicini al reparto. «Con il walkie talkie è più veloce», spiega Cacopardo.

Nell’armadietto delle scorte si contano i farmaci ancora disponibili. Ci sono diverse scatole di clorochina fosfato, da usare nel caso in cui il Plaquenil, cioè l’idrossiclorochina, finisca. In quella stanza c’è anche un televisore acceso: trasmette una puntata dei Simpson, su Italia 1, senza volume. Non lo guarda nessuno, anche perché l’unica persona seduta su una sedia sono io, che indosso solo parte delle protezioni previste per il «percorso sporco». «Come si sente?», mi ripete chi mi incontra. «Ieri sono rimasto nel reparto, così vestito, per almeno cinque ore. Dalle nove alle 14 quante ore sono? – racconta un altro dei medici in servizio – Quando sono uscito ero stravolto». Alcuni sono disidratati quando arriva il momento in cui i pazienti possono essere lasciati per il tempo necessario al cambio turno.

Prima di entrare e uscire la procedura è fissa. Bisogna passare da una stanza di decontaminazione all’ingresso e farlo di nuovo all’uscita. Chi ha concluso il turno nell’area a pressione negativa deve essere lavato con un disinfettante che viene spruzzato addosso con un macchinario. Poi ci si spoglia. La svestizione è importante come il resto: togliere camice e guanti in modo sbagliato può permettere a particelle aerosol – quelle che trasmettono il virus – di spostarsi. E di essere respirate, o attaccarsi a lembi di vestiti rimasti fuori. Sono tutti potenziali veicoli di contagio

Togliere mascherina, guanti, tuta, occhiali e calzari, dopo oltre un’ora, è un sollievo. «Spesso non si capisce quanto sia difficile lavorare con le dovute protezioni. E lei non le ha indossate neanche tutte», spiega Cacopardo. Sotto la tuta non passa aria, camminare è scomodo, e il respiro, com’è ovvio che sia, è uno sforzo perché mediato dalla mascherina. Sensazione alla quale ormai tutti siamo abituati. Sulle guance ho un lieve segno degli occhiali da vista, attaccati alla pelle per via degli occhialoni. «Bisogna raccontarle queste cose – continua il primario – I ritmi di chi lavora lì dentro, con i malati, sono incredibili. E lo sforzo, anche fisico, non si può sottovalutare».


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