In tre mesi il centro Najma ha già accolto circa cinquanta ragazzi, minori o neo maggiorenni che vanno lì per una doccia e una merenda, per consulenze legali o per trovare lavoro. «All'inizio sono diffidenti, poi cambiano», raccontano le volontarie che lo animano. Ma per alcuni di loro è difficile dimenticare la prigionia
Via Don Bosco, la nuova casa per giovani migranti «Dopo le violenze in Libia, qui abbiamo degli amici»
«Sono scappato dal Gambia perché venivo trattato come uno schiavo». A. ha poco più di 18 anni, è arrivato in Italia nel 2016 e subito è stato accusato di essere uno scafista. Ha vissuto sei mesi in uno Sprar e, dopo la maggiore età, è finito a dormire in strada. Dorme nell’auto di un ragazzo senegalese, che gli permette di usarla durante la notte. È solo una delle storie in cui ci si imbatte entrando in Najma, in via Don Bosco 9, una casa inaugurata grazie al lavoro dell’associazione Meta cometa onlus, formata da famiglie affidatarie che accolgono minori italiani e stranieri. Najma prende il nome da una stella, che dovrebbe essere la guida dei ragazzi, ed è parte del progetto Mi interesso di te, avviato insieme all’istituto dei Salesiani di San Gregorio e finanziato per undici mesi dalla fondazione San Paolo. «È un’esperienza molto bella perché li tiriamo fuori dalla strada, per quanto possiamo, offrendo un’alternativa a pomeriggi trascorsi in giro», racconta Marcella Pavone, educatrice che il lunedì e il venerdì si occupa dell’accoglienza dei ragazzi, spesso arrivati in città tramite gli sbarchi. «Li intratteniamo – spiega – facendoli giocare a calcetto, organizzando una merenda o attività pomeridiane che possano stimolare la loro creatività».
Ma, soprattutto, avviando un percorso di inserimento nel mondo del lavoro. «A loro serve perché devono mandare i soldi a casa – chiarisce Pavone – i genitori hanno fatto un grande sforzo economico per farli arrivare nel nostro Paese e arriva il momento in cui devono restituire». Sempre con la speranza di poter tornare a casa. «Molti ragazzi, soprattutto del Bangladesh, restano legati alla terra d’origine e sognano di poterci tornare». La sociologa Eliana Emma, 29 anni, originaria di Enna, si occupa invece della fase successiva all’accoglienza, quella che riguarda appunto l’orientamento alla formazione per entrare nel mondo del lavoro. «Dopo che iniziano a frequentare il centro con costanza e si costruisce una relazione di fiducia pensiamo insieme a un percorso», afferma Emma, che da cinque anni si occupa del settore dell’immigrazione e dei richiedenti asilo e da tre si dedica in particolar modo ai minori stranieri non accompagnati.
Diverse le figure che gravitano attorno al centro, tutti professionisti provenienti da diversi ambiti che frequentano i Salesiani o Meta cometa. Tra questi la catanese Ianì Strano, coordinatrice del progetto, che riceve il mercoledì pomeriggio, e gli operatori di strada Gaetano Montalto, Simone Tringali e Marco Cultrera, che girano per la città per capire i ragazzi dove sono e che fanno, per poi agganciarli e portarli al centro. O ancora l’avvocato Francesco Aurichella, che si occupa dello sportello legale il mercoledì pomeriggio. «Si comincia con un approccio informale, i ragazzi arrivano al centro e possono fare una doccia e avere la merenda, guardare la tv o passare del tempo con gli educatori – spiega ancora Eliana Emma – Per chi lo volesse, poi, si può accedere allo sportello legale per il rinnovo dei permessi di soggiorno e per la regolarizzazione sul territorio e pensare a un progetto educativo individualizzato per entrare a scuola». Da poco sono partiti anche il percorso di alfabetizzazione e tre laboratori, uno manuale per la creazione di piccoli oggetti che i ragazzi potranno esporre o vendere, uno di cucina e una borsa di studio sull’Agricoltura. «Ci sarà un corso di 15 ore tenuto da un agronomo e in generale il progetto prevede l’attivazione di 15 borse di studio in vari settori, in base alle richieste dei ragazzi».
Da marzo sono arrivati da Najma circa cinquanta giovani. Molti diffidenti, demotivati e scoraggiati, delusi dalle esperienze vissute nelle comunità, da cui vengono espulsi al raggiungimento della maggiore età. A. è tra questi. «Sono scappato dal Gambia perché venivo trattato come uno schiavo», racconta il ragazzo che, orfano di entrambi i genitori, ha vissuto con la sorellina con un lontano parente che lo costringeva a lavori duri e umilianti. «Appena adolescente sono andato verso la Libia, in cerca di condizioni di vita migliori. Ho trovato una situazione inumana, sono stato in prigione per molti mesi, finché mi hanno portato in riva al mare e siccome non potevo pagare il viaggio mi hanno costretto con la forza a guidare il gommone».
Ha iniziato a frequentare il centro un mese fa, rafforzando il livello di alfabetizzazione della lingua italiana, avvalendosi della consulenza legale e chiedendo di essere inserito in un percorso di formazione-lavoro. Nel frattempo segue incontri di psicoterapia all’ambulatorio di etnopsichiatria dell’Asp, che stabiliranno se è pronto per essere inserito in un percorso di accoglienza. Anche S. viene dal Gambia, ha 19 anni ed è quello che più si è lasciato coinvolgere, fidandosi e chiedendo aiuto nella ricerca di un lavoro. «Ho vissuto con mia mamma e mio fratello, ho studiato e non avrei mai immaginato di vivere altrove, specie in Italia». Quando aveva 15 anni, però, i soldi non bastavano più e c’era una situazione politica delicata, così ha dovuto lasciare il paese di origine. «Sono passato dal Senegal e sono arrivato a Mauritania, dove mi sono fermato per cinque mesi. Lavoravo nel settore della pastorizia e credevo di avere raggiunto una stabilità, fino a quando ho dovuto seguire il mio datore di lavoro in Libia, attraversando su un pick-up Mali, Burkina Fasu e Niger. A Tripoli siamo stati portati in prigione da uomini armati che volevano un riscatto». Dopo un anno di torture, minacce e violenze è scappato, arrivando a una barca in partenza. «Non sapevo dove portasse quella barca, nella mia testa dicevo che qualunque sarebbe stata la destinazione io sarai stato grato a quel Paese. Sono arrivato in Italia il 24 giugno 2016. Sono salvo in questo posto che io ora chiamo casa e che mi sta dando tanti amici».