Via D’Amelio: le irritualità di un buio lungo 26 anni Tra i «non ricordo» o i «non sapevo» di chi indagò

Cinquantasette giorni. Sono quelli passati dalle due enormi stragi del 1992, la prima che fa saltare in aria un pezzo dell’autostrada A29 all’altezza di Capaci, insieme al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie e alla sua scorta. La seconda la via D’Amelio, spazzando via stavolta il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. Cinquantasette giorni in cui nessuno, a Caltanissetta, ha pensato di ascoltarlo, di sentire dalla sua viva voce dettagli, spunti, indizi rispetto alla morte del collega, prima che toccasse anche a lui la stessa identica sorte. «Devo dire che non sapevo nemmeno che il dottor Borsellino avesse manifestato la sua volontà di essere sentito dai magistrati di Caltanissetta…Sono certo che se avesse manifestato questa sua volontà con uno scritto, una telefonata, saremmo corsi da lui». A sentire il magistrato Carmelo Petralia, sostituto procuratore applicato a Caltanissetta, ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, sembra quasi che sia mancato per il defunto giudice Borsellino. A saperlo prima che aveva qualcosa da dire sulla morte di Falcone, allora sarebbero corsi tutti, appunto. Non si spiega come mai, allora, ci sia qualcuno che oggi come allora insista nel dire che un incontro con i magistrati di Caltanissetta era stato effettivamente fissato. Era previsto, guarda un po’, per lunedì 20 luglio. Ma il giorno prima Borsellino muore. «C’era un appuntamento, manco a farlo apposta, per lunedì», racconta ad esempio Paolo Giordano, sostituto procuratore a Catania.

Un incontro che però non avverrà mai. Ma tanto «si sapeva quello che Borsellino voleva dichiarare a Caltanissetta», continua il pm Giordano. «Vaccara lo incontrava ogni giorno a Palermo, ci disse che voleva dire tutta la storia dei “diari di Falcone”, che poi erano semplicemente tutti i veleni del palazzo di giustizia di Palermo». Sembra insomma che non fosse nulla di importante a livello investigativo quello che aveva da riferire Borsellino, solo qualche contrasto tra Falcone e i colleghi palermitani. Cose da niente, che avrebbe dovuto raccogliere un collega, «un sostituto che lavorava a Messina, applicato a Caltanissetta e mandato a Palermo per le indagini sulla strage di Falcone. Ma di questo Borsellino era molto seccato, perché Vaccara non sapeva nulla di mafia e lui doveva sistematicamente, giornalmente, spiegargli cosa fosse la mafia nella provincia di Palermo». A raccontare questi dettagli, invece, è il tenente colonnello Carmelo Canale, all’epoca il più stretto collaboratore di Borsellino. Che viene però inspiegabilmente ascoltato solo a quattro mesi dalla sua morte. Prima il 26 novembre ’92, poi il 15 dicembre e infine il 25 giugno ’93, «dove per la prima volta capivo che evidentemente il dottor Fausto Cardella non crede a quello che dico io».

Dettagli che, all’epoca, sarebbero potuti risultare utili spunti. E lo conferma anche Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia. «Borsellino raccoglieva tutta una serie di elementi e di intuizioni che era pronto a riversare alla procura di Caltanissetta. Cosa che però non avvenne mai». Come quelle sull’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che secondo Borsellino sarebbe stato arrestato entro la fine di quell’estate. Era un magistrato palesemente in contrasto con lui, all’interno del tribunale, che gli aveva anche tolto la territorialità su Palermo e lo aveva estromesso dalle indagini su Capaci. Giammanco tace anche sulla nota con cui il Ros lo aveva informato sull’arrivo dell’esplosivo per un attentato. Su di lui, in effetti, sembrerebbero esserci state delle indagini in corso, all’epoca, a Caltanissetta. «Ma se n’è occupata la Boccassini di questo argomento. Il mio ricordo su Giammanco è vago, non l’ho fatta io quindi non ho una memoria precisa», torna a dire il pm Giordano, che affida alla Commissione antimafia pochi e vaghi ricordi.

Ma questa dei 57 giorni di mancato ascolto di Paolo Borsellino resta, ad oggi, solo una delle molteplici domande evase. Un’altra, fra le tante, chiede insistentemente da 26 anni perché la guida delle indagini sulla strage di via D’Amelio fu assunta dal Sisde, quando la legge vieta rapporti diretti e collaborativi tra magistratura e servizi segreti. Una decisione anche questa tanto significativa quanto irrituale e anomala, presa direttamente dal procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra, che a poche ore dalla strage chiede di incontrare Bruno Contrada. Una collaborazione contra legem di cui, però, di fatto erano avvisati tutti, dai vertici della mobile e dei carabinieri di Palermo fino a Roma. «Una forzatura investigativa, normativa e procedurale di cui molti (i livelli apicali delle forze di polizia e di sicurezza) sono perfettamente consapevoli e che tutti assecondano», sottolinea la Commissione antimafia. Aspetti anomali che avrebbero potuto essere utili, più in là, nell’ottica del futuro depistaggio? Sembra probabile, anche perché è il Sisde a dare l’impronta a tutto: doveva trattarsi di mafia, nulla di diverso, nulla di più. Contrada la notte stessa della strage allude ai Madonia, famosi per il coinvolgimento in altri fatti dinamitardi, mentre il 10 ottobre ’92 il centro Sisde di Palermo invia alla sede di Roma una nota con cui ricostruisce la parentela mafiosa di Scarantino, «praticamente inesistente, parliamo di un parente acquisito, cioè fa ridere», commenta il magistrato Nico Gozzo.

Di questa irrituale collaborazione tra procura nissena e servizi segreti tutti gli altri magistrati, quelli dell’epoca e quelli che si sono succeduti, avevano avuto qualche sentore? I «non lo so» e «non ricordo» su questo punto diventano inspiegabilmente tanti. La prima è Ilda Boccassini, che il 21 gennaio 2014 davanti alla corte d’assise di Caltanissetta dichiara di «non aver mai visto incontri fisici fra il procuratore Tinebra e funzionari dei Servizi». Segue il collega Fausto Cardella, a luglio dello stesso anno, che invece «in questo momento proprio non lo ricordo, insomma, non so». L’anno dopo tocca ad Anna Maria Palma, che come gli altri nega di aver mai saputo di questa collaborazione. Infine c’è Nino Di Matteo, sentito il 16 novembre 2015: «All’epoca non seppi nulla. Seppi intorno alla fase finale della mia permanenza a Caltanissetta che c’era stata una nota dei Servizi….Ho appreso il dato. Già stavo andando via…E non ho mai constatato rapporti diretti Tinebra-Contrada».

Nessuno sa nulla, almeno tra loro, magistrati che hanno tutti declinato l’invito della Commissione antimafia, adducendo diverse giustificazioni. Qualcuno, però, di questa collaborazione qualche sentore lo ebbe. Anzi, più che un sentore. Petralia, infatti, partecipa addirittura a un pranzo conviviale tra vertici della procura nissena e quelli del Sisde: «Fu un pranzo all’hotel San Michele di Caltanissetta…Mi accorgevo di essere in un ambiente dove gli altri si conoscevano tutti quanti abbastanza bene». È solo con quel pranzo che il magistrato comprende la collaborazione in atto. Ma sulla famosa nota riguardante Scarantino e il suo profilo criminale, è dello stesso avviso di Boccassini: «Non mi ricordo neanche qual era il contenuto, non mi pare che dicesse cose spettacolari». Neppure Giordano, all’epoca applicato e poi aggiunto a fianco di Tinebra a Caltanissetta, sapeva della collaborazione. «Sapevo che il procuratore capo aveva una consuetudine, diciamo, di frequentazione col Sisde…lui aveva questo rapporto così – riferisce -. E poi, io non ho mai partecipato a pranzi, a riunioni conviviali coi Servizi, nella maniera più assoluta». Insomma, chi indagò sulla strage all’indomani della stessa, non sapeva nulla di come si stesse effettivamente procedendo? Troppe le questioni che restano quindi ancora ambigue, a fronte dei numerosi «ricordi prudenti e offuscati dal tempo» collezionati dalla Commissione durante le sue audizioni. 


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