«Non so neanche quante volte sono stato sentito su questa vicenda. L’avanzare dubbi come viene fatto da anni con una forma ossessiva nei miei confronti, prima dal fratello di Paolo Borsellino e successivamente, da un anno a questa parte, dalla figlia che prima non aveva mai parlato è una cosa che mi ha creato grande disagio, perché uno non sa che fare. Voglio approfittare di questa occasione per dire che questa ossessione si è risolta in una vicenda estremamente grave». La stoccata ai famigliari del giudice ucciso il 19 luglio ’92 in via d’Amelio arriva dall’ex magistrato Giuseppe Ayala, ascoltato ieri a Caltanissetta nel processo a carico degli ex poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata. Un esame difficile, il suo, che ha costretto la corte a intervenire in più occasioni e dare anche una pausa per calmare gli animi.
«Al Borsellino quater è stato ascoltato un collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo, che non aveva mai parlato del sottoscritto in più di 20 anni di collaborazione – dice ancora Ayala durante il suo esame -. Poco tempo prima della sua deposizione rilascia un’intervista in cui improvvisamente formula un’accusa molto pesante nei miei confronti: al maxi processo io avrei agevolato il suo capo famiglia, il mafioso Gambino Giacomo Giuseppe, che aveva commesso più di 50 omicidi, chiedendo solo dieci anni. Sono andato al computer per verificare, anche se ricordavo benissimo, e scopro che io avevo chiesto 18 anni e non dieci, e non potevo chiedere di più. La corte accoglie la mia richiesta e lo condanna a 18 anni, in appello viene ridotta a 16, poi confermata dalla Cassazione. Quando Mutolo si presente al dibattimento conferma queste circostanze incalzato dalle domande di Salvatore Borsellino che è qui anche oggi – l’allusione è all’avvocato Fabio Repici -, per cui lui ora è imputato a Roma per calunnia. Io mi chiedo, visto questa ossessione che dura da anni, il bisogno di andare a controllare al computer prima di porre questa domanda c’è stato o no? Questa è una doverosa verifica che va fatta, se poi la verifica è stata fatta e la domanda posta lo stesso sapendo la risposta», dichiarazioni, queste, che iniziano ad alimentare il chiacchiericcio in aula e il nervosismo dello stesso avvocato tirato in ballo.
«E quando la figlia di Paolo dice che vorrebbe chiedere a me delle mie inesattezze, perché non me le viene a chiedere? – torna a dire poi Ayala -. No, va a parlare con gli assassini di suo padre in carcere e non viene a chiedere a me alcun chiarimento». Un’altra stoccata, che per qualche istante gela l’intera aula. I chiarimenti cui allude sono su una circostanza in particolare, quella a cui il pubblico ministero gli chiede insistentemente conto almeno per quaranta minuti. Quei primi istanti trascorsi in via d’Amelio. Ayala infatti è uno dei primi ad arrivare sulla scena. Sente «un botto enorme» quando si trova al Residance Marbella, a pochi chilometri dal luogo dell’esplosione. Poi si affaccia, vede sollevarsi una colonna di fumo nero, avvisa la sua scorta e si dirige in quella direzione. Ma resterà solo un minuto appena, dice a più riprese.
«Non avevo idea che lì ci vivesse la madre di Paolo Borsellino», inizia a raccontare, smentendo subito uno degli uomini della sua scorta dell’epoca, che al Borsellino quater ha invece raccontato che di questa circostanza Ayala sarebbe invece stato al corrente. «Arrivato lì sono inciampato in un tronco di un uomo bruciato, carbonizzato, senza braccia e senza gambe, solo con la testa. Mi sono sforzato di riconoscerlo, ero stato messo in allarme dalla presenza di una macchina blindata…e ho riconosciuto questo mio grande amico, aveva la bocca aperta, dai denti davanti che aveva un po’ vicini e dal naso aquilino, insomma mi sono reso conto». Quello ai suoi piedi è quel che resta del corpo di Paolo Borsellino.
«In quel momento sono uscito, mi sono ritrovato vicino alla macchina blindata e bruciacchiata di Paolo, ero presente fisicamente ma con la testa non c’ero, penso che si possa capire, ero stravolto – continua a raccontare -. Non nego che il pensiero che mi è venuto è che “se questi continuano, il terzo potrei essere io”. Ebbi infatti un rafforzamento della scorta, mi fu assegnato un volo di Stato, a Punta Raisi trovavo due elicotteri e all’ultimo minuto ero io che decidevo su quale salire. In queste condizioni è chiaro che i miei ricordi, anche a distanza di anni….».
Si lascia andare a qualche divagazione, ma poi è di nuovo lui a tirare in ballo il cuore della questione, la scomparsa dell’agenda rossa. «Non ho mai dubitato che avesse un’agenda, l’avevamo tutti, ma non conoscevo la portata di quello che ci fosse scritto». Ma perché si chiedono a lui, ancora oggi, queste precisazioni? Perché dopo essersi imbattuto nei resti del magistrato ed essersi spostato di fianco alla sua macchina bruciata, Ayala si ritrova anche con la borsa di Paolo Borsellino fra le mani. Si guarda intorno, individua due ufficiali in divisa, gli va incontro e consegna loro quella borsa.
«Non ci sono aggettivi per descrivere lo stato d’animo in cui mi trovavo – dice ancora -. C’è lì anche Felice Cavallaro che mi ripete “vattene dai tuoi figli”. In uno stato di agitazione che non devo sottolineare. Trovo questi due carabinieri, sicuramente in divisa se no come li avrei riconosciuti? Consegno loro la borsa, cosa che rifarei anche domani mattina, i reperti si danno alla polizia giudiziaria. Io poi me ne sono andato. Dal momento in cui ho la borsa in mano alla consegna ai carabinieri e Cavallaro che mi dice “vattene vattene” passa anche meno di un minuto, dopo di che me ne sono andato e non ne so più nulla». Non ha dubbi, mima la scena, è sicuro dei tempi, anche a distanza di 27 anni. «Arrivato a casa ai miei figli ho detto subito “oggi papà lo vedete dal vivo, e non in televisione” e ho detto tutto… è difficile farvi capire lo stato in cui ero quel giorno». Nelle immagini che la immortalano al telefono, con chi parla allora? «Non ero assolutamente al telefono, vorrei vedere queste immagini, faccio fatica a credere che ci siano», ribatte stizzito lui alla contestazione.
Ma, intanto, quella borsa come ci finisce tra le sue mani? «Non lo so, non mi ricordo come mi è arrivata. Confermo che mi è arrivata tra le mani e che l’ho consegnata in mano a due carabinieri, ma non ricordo come l’ho avuta, sarà una colpa gravissima di cui risponderò davanti a Dio – dice, sembrando però quasi ironico -. Forse l avidi nell’auto, ma onestamente non sono sicuro. Non è che sono stato lì a ispezionare la macchina, avrò dato uno sguardo di sfuggita. Ognuno di noi – continua dopo – si porta un’esperienza dietro, tutta questi sospetti sulla mia genuinità è un’offesa alla memoria di molti, allora Caponnetto e Falcone erano degli sprovveduti che non si erano accorti di avere una serpe in seno?».
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