Vecchia dogana, cronaca di un fallimento «Dobbiamo andare via da questa gabbia»

«Ripartiamo da zero. Scusateci, ci stiamo rifacendo il look»: è letteralmente una frase scritta su un totem nel deserto. Il totem è di quelli pubblicitari, il deserto è la Vecchia dogana di Catania, che avrebbe dovuto essere «la prima e unica Città del gusto della Sicilia» e che invece ha assunto l’aspetto di un villaggio fantasma. Inaugurata in pompa magna il 28 ottobre 2011, la struttura – edificio ottocentesco ristrutturato dai privati in project financing con il Comune etneo – conta «diecimila metri quadrati di superficie coperta su tre livelli». E se all’epoca del lancio le settanta botteghe disponibili pullulavano delle attività che le cinquanta aziende coinvolte erano disposte a offrire, oggi i proprietari di una delle ultime imprese rimaste sperano di riuscire a smantellare tutto entro fine mese.

Corridoi di porte a vetri chiuse, coperte di fogli di carta bianchi. «Qui il traffico è quello che vede», dichiara uno degli affittuari di uno dei pochi negozi ancora aperti, che preferisce rimanere anonimo. «Il traffico» in questione, in realtà, non si vede. «Abbiamo investito in questo spazio circa cinquantamila euro – racconta l’uomo, con amarezza – Adesso abbiamo perso tutto, dobbiamo andarcene il prima possibile da questa gabbia, speriamo di chiudere entro aprile». Ma c’è da smontare tutto, da prendere le proprie cose – un negozio intero – «e sono spese anche quelle, perdite che si aggiungono ad altre perdite», sospira, mentre cambia il canale di una televisione accesa in una stanza piena di tavolini vuoti.

Dal bar «Prestipino» alla libreria-edicola «Librando», passando per un negozio di kebab, «Nero maialino», «Marullo», «La mucca pazza», «Il macellaio», le ceramiche «Alessi», «Game city», «Dr Juice», il biscottificio «Arena», «Bombo crêpes»: di molti di questi non sono rimaste neanche le insegne.

«Noi, invece, ce la caviamo», afferma Ada Bentivoglio, che lavora in uno degli spazi che non subisce la crisi. È il museo-teatro dei pupi siciliani della famiglia Napoli, opera che l’Unesco ha dichiarato «patrimonio immateriale dell’Umanità». «C’è da dire, però – specifica – che noi i flussi di gente non li aspettiamo, li creiamo: tra gli spettacoli e le visite che organizziamo per le scuole, qualcuno qui dentro lo portiamo». Se dovessero sperare nei catanesi attirati dalla Vecchia dogana, o nei croceristi appena sbarcati in città «non avremmo un granché da festeggiare». La stagione delle crociere 2013 è iniziata a febbraio e si è interrotta a dicembre. «A dirla così sembra tanto, ma in realtà ci sono state due crociere a febbraio e tre a marzo, poi due a novembre e due a dicembre – puntualizza la dipendente – Nei mesi estivi c’è stato un certo movimento, ma è durato pochino». E peggio va nel 2014: non sono previsti croceristi fino a maggio («Sbarcheranno tre navi, poi cinque a giugno») e novembre e dicembre saranno ben più che calmi («Due crociere in tutto»).

«Se uno dovesse campare con questo, come farebbe a pagare l’affitto?», replica un imprenditore, che preferisce l’anonimato anche lui. «Le cifre cambiano, ovviamente, in base alla metratura e alla posizione della bottega, ma oscillano tra i millecinquecento e i cinquemila/settemila euro al mese», spiega. «Costi altissimi e anche le aziende più grosse, quelle che hanno altri locali in città e fuori, hanno mollato». A resistere sono un paio di catene della ristorazione: «Moroboshi» e i «Fratelli La Bufala». «Noi – racconta il personale del ristorante giapponese specializzato in sushi – non abbiamo particolari problemi: ma abbiamo un marchio forte di per sé». Le sere migliori sono quelle del fine settimana, «anche perché – spiegano – qui fuori c’è il Caffè del porto, un locale sempre affollatissimo, che spinge un po’ di gente da questa parte». «È vero – conferma il primo imprenditore – quando loro il venerdì organizzano la serata, noi qui vendiamo qualcosa».

Ad attrarre la gente forse potrebbe servire Eataly, il colosso del buon cibo italiano, il cui fondatore, Oscar Farinetti, è stato nei giorni scorsi in visita a Catania, a braccetto col primo cittadino Enzo Bianco. «Eataly attrae – ammette Ada Bentivoglio – se aprisse qui forse invoglierebbe i catanesi a venire: per noi va bene, visto che il museo dei pupi non è solo cosa da turisti». «Sarebbe la fine per tutti quelli come noi – lamenta, al contrario, il proprietario dell’attività in chiusura – Eataly non è solo un supermercato, è anche un bar, una pizzeria, un ristorante, una gelateria, una pasticceria… Eataly fa tutto. Secondo lei, una piccola attività piena di difficoltà potrebbe mai resistere alla concorrenza di un gigante aperto nella porta accanto?». La risposta è scritta nelle sedie orfane di clienti. «Io non capisco una cosa – conclude – Questa non doveva essere la migliore vetrina dei prodotti locali? E la Sicilia che fine ha fatto?».


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Di porte aperte ne sono rimaste poche. All'interno della struttura portuale, ristrutturata in project financing e – all'epoca, nel 2011 – destinata a diventare la fortezza del mangiare bene in Sicilia, le botteghe sono quasi vuote. E quelle che sono rimaste piene, stanno per chiudere anche loro. Pochi i croceristi e non pervenuti i catanesi a passeggio. Il rilancio sembra passare da Eataly, «ma la Sicilia dov'è finita?». Guarda le foto

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