Vargas Llosa e Tomasi di Lampedusa: cronaca di un premio annunciato

di Barbara Morana

Il Gattopardo questo miracolo letterario, di quelli che di tanto intanto irrompono nel panorama culturale, opera prima e exploit letterario di uno scrittore alle prime armi che ha lasciato al mondo delle pagine di avvincente bellezza, un romanzo dalla tessitura struggente e dalla resa plastica travolgente, costruito sulla parola che ne struttura gli eventi, attutisce i dissensi, sacralizza il profano e innalza l’umano.

Il premio letterario “Tomasi di Lampedusa”, arrivato alla sua decima edizione, quest’anno ha premiato il Nobel della Letteratura Mario Vargas Llosa, per il suo ultimo libro Il Sogno del Celta e soprattutto per il saggio critico scritto, molti anni fa, dall’autore peruviano sull’opera e la figura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Da anni il premio letterario vuole evidenziare l’enorme fonte d’ispirazione che il Gattopardo ha rappresentato, e continua a rappresentare nel panorama letterario mondiale.

 

Nel saggio La verità delle menzogne, Vargas Llosa scrive quelle che secondo me sono le pagine più belle mai scritte sull’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in esso egli descrive questo romanzo “quasi perfetto” con ammirazione e lucidità. Dopo averne lodato la bellezza, egli appunta come l’opera non riesca a iscriversi nell’albo dei capolavori assoluti quali Madame Bovary di Flaubert o I Demoni di Dostoevskij. Infatti malgrado l’indiscutibile qualità narrativa e l’eleganza del linguaggio, Tomasi di Lampedusa non riesce a restare fuori dalla finzione, e vi entra di tanto in tanto con inopportune precisioni che evidenziano la sua presenza al lettore, errore fatale, poiché chi scrive deve sempre restare nell’ombra.

Ma il Gattopardo resta pur sempre un’opera eccezionale, tanto da compararla ai romanzi Paradiso di Lezama Lima e Los pasos perdidos di Alejo Carpentier per sensualità e eleganza, senza contare il fatto che i due grandi scrittori cubani da lui definiti barocchi, sono riusciti, grazie alla plasticità quasi scultorea conferita alle loro finzioni, ad emancipare il proprio romanzo dalla corrosione temporale, così come fa Tomasi di Lampedusa. Plasticità del tempo narrativo che lo rende un luogo a sé stante, non sottomesso al tempo cronologico, ecco la vera grandezza del Gattopardo, ahimè (secondo Vargas Llosa) a questa si accompagna un principe, scrittore inesperto che non riesce a domare il proprio ego, inquinando il tempo narrativo con precisioni e anacronismi inutili che a tratti ed inesorabilmente ripiomba il lettore nel tempo cronologico.

Mario Vargas Llosa, questo Don Quijote del romanzo, o quanto meno della sua “idea di romanzo”, che si batte contro i mulini a vento in un mondo invaso dalla letteratura spazzatura e dalla cacca d’elefante, istrionico e incantatore ci ha deliziato un paio d’ore, in una conversazione fluida ed aperta dov’egli, ancora una volta immancabilmente se stesso, ovvero “politicamente scorretto”, difendeva le sue idee, il mondo e i suoi pari, in questa storia infinita di letteratura, impegno politico, civile e sociale che è diventata la sua vita. Cosicché, dopo una breve premessa in cui Don Mario ci racconta le sue emozioni nel visitare i luoghi che hanno ispirato il Gattopardo, emozioni ancora imprecise, sommarie, poiché non vi è ancora la distanza sufficiente che permette allo scrittore di poterle narrare, entriamo nel vivo dell’impegno civile tanto caro a Vargas Llosa, ovvero la proposta di candidare Lampedusa e i suoi abitanti al Premio Nobel per la Pace.

E via con la politica, i problemi dell’Europa, la denuncia di sentimenti esecrabili quali il razzismo e l’ignoranza dell’altro, in seguito con una breve pennellata ha dipinto la situazione socio economica latinoamericana, e poi ci da giù con l’odiosa fabbrica della letteratura per la massa e le lamentabili arti visive spazzatura per ricchi acquirenti e anestetico per visitatori compiacenti, tutte opinioni pubblicate nel suo ultimo saggio La Civiltà dello Spettacolo. In questo saggio Vargas Llosa mette in luce molti aspetti critici della società contemporanea e allo stesso tempo, secondo il mio modesto parere, mostra la grande nostalgia che lo scrittore prova per un concetto di “alta cultura” o “cultura” tout court ormai vetusta ed insufficiente per essere applicata alla complessità culturale odierna.

Malgrado io condivida molte opinioni espresse in questo libro, dissento totalmente dall’ideale culturale legato alla produzione artistica e letteraria contemporanea, la letteratura e le arti sono il termometro dei tempi in cui vengono prodotti, e quindi i libri e le opere artistiche odierne sono le nostre, sono le uniche possibili, e non quelle che ci meritiamo com’egli stesso afferma, testimonianze lasciate da coloro che le vivono secondo logiche che rispondono al presente e non a sentimentalismi o nostalgie legate al passato. In questo scritto trovo Vargas Llosa un po’ gattopardiano, e per momenti anche semplicione, certo ammetto che se io avessi avuto Julio Cortazar che leggeva i miei manoscritti, e i miei vicini di casa si fossero chiamati García Márquez e Donoso, probabilmente un po’ di nostalgia dei tempi che furono e che giammai ritorneranno, l’avrei anch’io!

Ritorniamo a noi, parlavamo di Don Mario e di Vargas Llosa rispettivamente lo scrittore e l’uomo socialmente e politicamente impegnato. Nei suoi romanzi quest’uomo così compromesso con il mondo in cui vive, evade dalla realtà, da essa egli parte per poi fuggirne, alla prima strettoia, al primo semaforo, prende una nave, un treno, o volta semplicemente il primo angolo di strada, per riapparire nel mondo della finzione, in questo mondo di mezze verità, di verità parallele, che se vissute come tali, ci aiutano a vivere meglio, trasportandoci e innalzandoci ad altre mete ed ad altri destini a volte brillanti, altre volte funesti, ma mai banali. E mentre lui pratica la sua idea di letteratura, a noi non rimane che leggere sapendo che non vi sono verità o menzogne in quello che leggiamo vi è solo finzione, quella letteraria: ovvero una trama perfetta di uomini e storie che si è tessuta seguendo le sapienti mani di uno scrittore che si nasconde, invisibile e prudente per raccontarci una storia.

Vargas Llosa ha avuto la meglio durante questo pomeriggio margheritese. A tratti però, quando lo facciamo parlare di letteratura Don Mario torna, sorride, gli brillano gli occhi e le parole seguono il ritmo del suo racconto incantando il pubblico presente consapevole di stare assistendo ad uno spettacolo indimenticabile: quello di un autore che svela alcune parti di un lavoro non ancora terminato. Ecco che alla domanda: “Se lei dovesse scegliere il nostro paese come luogo dove ambientare uno dei suoi romanzi, che città sceglierebbe e quale sarebbe il personaggio di cui si servirebbe per raccontarla?”, con un ghigno Don Mario compiaciuto risponde, ci descrive la pièce di teatro alla quale sta lavorando, ambientata in Italia, partendo dal proemio del Decameron di Boccaccio.

Siamo lì, ammaliati come il serpente sotto il giogo dell’incantatore, le sue mani si muovono al ritmo delle sue parole, noi lo guardiamo e pendiamo dalle sue labbra, è questa la magia di Don Mario lo scrittore, questa è la grandezza di un uomo il cui destino è quello di scrivere storie, storie che incantano o che disincantano ma mai deludono. Corre l’anno 1348, ci sembra di vederle le 7 ragazze e i tre giovani, uscire dal Decameron per lanciarsi in una nuova avventura, fuggono Firenze assediata dalla peste per rifugiarsi a Villa Palmieri, lasciandosi dietro morte e disperazione questi giovani seguono Don Mario, uno scrittore sensuale e sagace, sottile e triviale a secondo della necessità narrativa, che li catapulta nel 2013 per vivere grazie alla letteratura nuove finzioni e nuove emozioni.

Sono le 20:30, da una sedia di fronte al palchetto dov’è seduto Mario Vargas Llosa, si ode una tosse secca e forzata, è Dueña Patricia che sì facendo ricorda perentoriamente al marito che è ora di andare. Abbiamo avuto un assaggio, in diretta, della prossima opera teatrale di Mario Vargas Llosa, un grande privilegio, regalo inatteso di un uomo generoso a degli sconosciuti che si trovavano lì per elezione, un pomeriggio d’agosto, immersi nel tepore umidiccio del mitico giardino del Principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ancora una volta la finzione ha avuto la meglio e la letteratura ha sublimato il tempo trascorso colmandolo di inattesa eccitazione.

 


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