“Indigena” è in via Amantea. Un viottolo incastonato al centro di Catania a due passi da via Etnea. Ed è un minuscolo negozietto di dischi, e un’agenzia di booking, con una porticina d’entrata che quasi non si vede. Il proprietario è Agostino Tilotta, un musicista che con la sua band, gli Uzeda, ha partecipato a dare a Catania il diritto di cittadinanza nello scenario del rock. Tanti i riconoscimenti per la band: una notorietà internazionale spalmata in oltre vent’anni di carriera, l’attenzione di John Peel per le sue session alla BBC, il contratto con la Touch&Go, mitica label di Chicago. Agostino mi dà appuntamento da Indigena per l’intervista. Gli Uzeda si esibiscono sabato alla Sala Lomax e allora è un’occasione ghiotta per andare a trovarlo e parlare di musica. Appena entro nel negozio, trovo Agostino seduto su una seggiola con in braccio una chitarra acustica. Attorno, ci sono dischi in vendita esposti in piccoli scaffali di legno, e sul piatto sta passando un pezzo dei Calexico. Sulle pareti la vernice è arancione e fa un bell’effetto con la luce del mattino.
Agostino, partiamo con Stella, il vostro ultimo album del 2006. Come lo giudichi, oggi, con uno sguardo a distanza?
«Uno dei motivi per cui facciamo musica è stare lontani dalle classifiche canoniche. Ci dà molta soddisfazione sapere che quello che facciamo, a distanza di tempo, mantiene una freschezza che perdura e così anche “Stella”. Riascoltandolo mi è capitato di trovarci degli aspetti interessanti che non ricordavo più, elementi che avevo dimenticato, che mi hanno stupito. Certo, c’è il live e lì suoniamo e risuoniamo certe canzoni, ma quando si sta sul palco è diverso, siamo spiritualmente coinvolti, fisicamente provati, è una corsa verso una jungla di appartenenza. Il disco no, ci sono canzoni di “Different Section Wires” o anche di “4” che oggi suonano benissimo e sembrano nuove anche per noi. Oppure “Out of Colours”, l’altra volta mi è capitato di riascoltarne la cassetta in macchina…».
Hai ancora la radio con la cassetta?
«Certo che ce l’ho! (ridiamo entrambi). Comunque, ti dicevo, l’altra volta ho messo la cassetta di “Out of Colours”, non l’ascoltavo da dieci anni e ho pensato: “cavolo questo è un disco che uscisse oggi spopolerebbe”. Io credo che sono dischi che a distanza di tempo vantano tale compattezza perché non costruiti per acchiappare la posizione numero 2 o numero 15 di una classifica».
Dopo Stella il pubblico degli Uzeda ha un po’ il timore di dover aspettare tanto per un vostro album nuovo. Un po’ come era successo per Stella, arrivato dopo otto anni di attesa…
«Non credo a un “pubblico degli Uzeda”. Certo, ci sono persone che ci stimano, amici e musicisti che ci prendono come riferimento. Credo che la nostra proverbiale lentezza, sia legata al nostro modo di essere e di fare. Nella musica, nella composizione, ci sono altre cose importanti: come il piacere di stare assieme senza fare nulla, magari arriviamo in studio per registrare, ma poi finiamo a chiacchierare o andiamo a mangiare fuori. Insomma, noi siamo un po’ diversi da altre realtà musicali, e lo spazio temporale che intercorre tra un disco e un altro, spesso ci fa perdere il rapporto con un “pubblico Uzeda”. Basti vedere come ai nostri concerti ci si possano trovare almeno due generazioni completamente distanti tra loro. Sicuramente ci sono gli appassionati: quei ragazzi che ci seguono sempre o che sfoggiano la Peel Session degli Uzeda trovata a 2 euro in un sperduto mercatino».
Sabato però possiamo sperare in qualche pezzo nuovo?
«Sì, faremo due brani nuovi che si inseriscono in una serie che stiamo preparando per un disco nuovo che però ancora non sappiamo quando uscirà».
Il fatto che siamo qui, nel tuo negozio di dischi a Catania, fa parte di una scelta precisa che avete fatto tanti anni fa: non andarvene da quì. Pentiti?
«Noi siamo in quattro, ognuno ha una sua sensibilità, quindi posso risponderti solo personalmente a questa domanda, o al massimo, coinvolgendo il pensiero di Giovanna (Cacciola, cantante della band ndr) con cui condivido vita e musica. Io non mi sono mai pentito e mai lo farò di non aver lasciato questo luogo alla ricerca del successo. Anche perché credo che tutto possa ancora accadere e magari altre possibilità sono dietro l’angolo. È stato difficile rimanere a Catania, ha significato sacrifici, affrontare una quotidianità che non ci piaceva. Però questo posto della terra ha delle caratteristiche che altri non hanno e che lo rendono unico. Certo, molti di quelli che fanno musica a Catania e sono andati via per cercare fortune altrove, hanno incontrato un buon successo. La nostra scelta, però, è stata quella di sovvertire questi parametri. Noi andiamo in tour quando cavolo ci pare, scegliamo i luoghi, scegliamo quanti soldi andiamo a prendere. In una frase: lavoriamo per vivere e viviamo per la musica».
A proposito di Catania, mi dai un’opinione sulla sua politica?
«La politica è una cosa reale di tutti i giorni, non c’entra nulla il partito o le elezioni dei candidati. Quelle sono solo delle espressioni. Esattamente come la vita dei vulcani, come il Vesuvio, che non è spento, invece si risveglierà e farà un gran casino. Quindi la politica esiste nella quotidianità, esiste nel comportamento di tutti i giorni. Se viviamo questa situazione drammatica è perché l’abbiamo prodotta noi con il nostro comportamento. La condotta della gente del sud non consiste nel reagire ai problemi, ma nel guardare il proprio orticello e mantenerlo pulito. Poi magari quando escono da lì, buttano la carta per terra avendo cura di non essere notati. Poi c’è un altro aspetto. Catania è la città del consumismo. Il consumo è il piccolo conforto che viene dato dal mercato, un santo etereo che esiste per consolare ognuno delle proprie insoddisfazioni. Quindi la gente si ubriaca, si diverte e fa qualsiasi cosa che possa metterla nella condizione di dire: “stasera è così, domani poi si vedrà”. E’ tutto questo è politica».
C’è anche un’autoindulgenza nei catanesi. Tempo fa un cratere che si è aperto alla circonvallazione è diventato motivo di vanto da guinness. Anche l’inchiesta di Report mostrò questa forma di strana autoironia…
«Report ha avuto il merito di dirci quello che in città si voleva volutamente nascondere. E lo ha fatto prendendosi la briga di indagare e la responsabilità delle cose che ha fatto emergere. Ma Report è un occhio esterno a Catania. Dall’interno la gente sgomita per passare prima e poi sta nel proprio piccolo spazio per diventare una moltitudine di nessuno. Quello che vediamo è devastante, non c’è alcuna forma di aggregazione cittadina. Tutti stanno per conto proprio: il catanese da una parte, il messinese da un’altra, quando citiamo Palermo, è come se fosse un regno là, lontano. Poi c’è la contea di Catania. Un cumulo di tribù, tanti piccoli falò, tante carni di cavallo. Un piccolo medioevo con i costumi di oggi».
Cambiando discorso, la Touch and Go, la vostra storica etichetta, è in crisi per il crac del mercato discografico. Ci aggiorni sulla situazione?
«E’ semplice, nel momento in cui le vendite hanno cominciato a dare risultati non soddisfacenti, Touch&go s’è protetta per evitare la chiusura. Vedi, oltre alla produzione, l’etichetta si è sempre occupata della distribuzione della musica. E la distribuzione non si limitava a mettere dischi nei negozi, ma si occupava di tutta la manifattura, della stampa, sostenendo i costi con il recupero su una parte delle vendite. Con il calo delle vendite, le entrate subivano le uscite e, così, Touch&Go ha deciso di ristrutturarsi a cavallo dell’anniversario dei venticinque anni di attività. Come? Ha tagliato tutto ciò che non era intrinseco a Touch&Go, ha ridotto l’aspetto produttivo, ha consentito a tutte le band di organizzarsi a modo proprio, e sta tentando di recuperare un po’ di soldi attraverso il suo catalogo straordinario. L’obiettivo è riprendere un po’ di ossigeno e rimettersi in piedi».
Il cd nel frattempo è un dead man walking…
«Il cd è nato con lo scopo di uccidere il vinile, ma non per un fatto qualitativo come veniva promosso alla sua uscita…ricordo che vantavano l’utilizzo del raggio laser. La realtà si è scoperta solo più tardi. L’invenzione del cd è stata una questione di profitto, perché produrre un cd costa pochissimo rispetto al vinile. La scusa con cui le industrie hanno convinto tutti ad adottarlo, faceva leva sulle questioni di comodità e spazio. Io credo che “la più grande rivoluzione audio del mondo”, come era stata presentata, invece è stata un fallimento. Tutt’ora i cd costano più dei vinili pur essendo molto più economici da realizzare. Dietro questo bluff, quindi, ci sono quelli che dovevano fare montagne di soldi a discapito della qualità e del rispetto della gente».
E i negozi di dischi che fine faranno?
«Il cd è un mercato morto, però le etichette indipendenti non hanno mai smesso di stampare il vinile. Perché, anche se non ci crede nessuno, esiste un mondo di gente che compra il vinile e poi il cd solo per ascoltarlo in macchina. Laddove esiste una cultura musicale, il vinile è sempre resistito. E’ qui, in Italia, che hanno fatto credere a tutti che il vinile era morto, e che era solo per dinosauri. Dietro tutto questo c’è sempre un mondo economico che continua ad arricchirsi a discapito del piacere del fare le cose».
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