Dovevano essere un’occasione per agevolare gli studenti che non avevano i mezzi sufficienti per poter studiare lontano dalla propria città di residenza. Le sedi distaccate delle università siciliane – nate per decentrare i corsi degli atenei di Catania, Palermo e Messina – dopo un iniziale gradimento, adesso sono considerate in alcuni casi un carrozzone di cui liberarsi. Attualmente i poli decentrati sono formati da consorzi partecipati da Comuni, ex Province, privati e con la partecipazione delle associazioni di categoria.
Otto poli per tre università: Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Ragusa, Siracusa, cui si aggiungono Noto, Modica e Priolo. Sono sommersi dai debiti, il numero degli iscritti è in calo e i costi crescono senza avere un reale riscontro. La prima parte del viaggio di MeridioNews all’interno degli atenei siciliani, per comprendere l’origine della crisi dei consorzi universitari, parte dal versante occidentale dell’Isola.
L’Università di Palermo ha tre poli decentrati, dove sono stati organizzati i corsi di laurea specifici per il territorio. Costano quattro milioni e mezzo di euro all’anno, cifra che non sempre si riesce a coprire. Le sedi si trovano a Caltanissetta, Trapani e Agrigento.
Nel capoluogo nisseno, c’è la storica Scuola di Medicina che ogni anno accoglie i novanta studenti che superano il test di ingresso. Un «assegno circolare», lo definisce il rettore Fabrizio Micari parlando di funzionalità e gradimento degli studenti. Il consorzio di Caltanissetta costa un milione 330 mila euro, con il bilancio che in questo caso si chiude in pareggio. A Trapani, che accoglie ottocento studenti tra immatricolati, studenti in regola e fuori corso e studenti nei corsi ad esaurimento. L’ultimo corso aperto su Marsala è il corso in Viticoltura ed Enologia, richiesto espressamente da Comune e privati. Gli altri organizzati nel capoluogo quelli di Giurisprudenza, Consulente giuridico, Infermieristica e Architettura. Negli ultimi anni c’è stato un calo degli iscritti, ma il polo regge grazie alla specificità dei corsi di laurea offerti. L’ex Provincia, con il 73 per cento delle quote del Consorzio, garantiva un contributo di oltre 800mila euro l’’anno. Somme a cui oggi si deve rinunciare, facendo affidamento per larga parte soltanto sulle risorse regionali.
Le cose vanno decisamente meno bene ad Agrigento. Nella città dei Templi, con il più grande parco archeologico del mondo, chiude l’unico corso di laurea in Beni culturali e archeologia. Il consorzio universitario di Agrigento (Cua) rischia di morire perché non ci sono più corsi di laurea attivi. Gli uffici di piazza Marina hanno tagliato quello che si poteva tagliare: prima Architettura, poi il corso di laurea in Giurisprudenza e adesso sono agli sgoccioli anche gli ultimi corsi ancora aperti. Il Cua ha un contenzioso con l’ateneo da 12 milioni di euro per mancati versamenti dal 2008 ad oggi. Un debito altissimo che rischia seriamente di interrompere il rapporto tra Palermo e Agrigento, tanto da dover costringere palazzo Steri a chiudere dal prossimo settembre il corso in Archeologia. «La crisi dei consorzi è dovuta proprio alla scomparsa delle Province – afferma il rettore Fabrizio Micari -. Fino a quando erano attive c’era un dialogo aperto e le stesse province erano le prime a sostenere i consorzi. Vorremmo puntare sui poli decentrati, ma senza una regolamentazione precisa dei consorzi con il contributo stabile da parte della Regione non possiamo fare programmazione».
Appena un anno fa, il governo Crocetta aveva riformato, razionalizzando, il sistema di finanziamento dei consorzi universitari. Era stata garantita la certezza dei finanziamenti regionali per il sostentamento dell’offerta formativa erogata dagli Atenei in sede decentrata. L’obiettivo dichiarato era porre fine al modello fallimentare che in passato aveva caratterizzato i rapporti economico-finanziari con i consorzi, questi ultimi generalmente contraddistinti da uno stato di morosità cronica. Finora, però, quei crediti non sono mai stati riscossi e così Palermo ha deciso che – senza contributi regionali necessari a coprire le spese di docenza, gli affitti dei locali e i costi fissi – il polo di Agrigento verrà chiuso. A dicembre, il Cua ha perso pure il sostegno dei Comuni di Sciacca e Ribera, che avevano legato il proprio nome alla possibilità di sfruttare la vocazione turistica dell’Agrigentino. E così, il consorzio è rimasto solo ad affrontare una crisi che va avanti da anni.
Sull’argomento interviene direttamente l’assessore all’Istruzione Roberto Lagalla. «La Regione Siciliana destina regolarmente al polo didattico di Agrigento le risorse previste dal bilancio regionale, così come avviene per gli altri consorzi universitari, presso i quali non risulta contratta l’attività didattica – dichiara Lagalla, che è stato anche rettore dell’ateneo palermitano prima di Micari -. La programmazione di quest’ultima resta nella competenza delle Università convenzionate. Pertanto nessuna responsabilità, relativa al ridimensionamento del polo di Agrigento, può essere addebitata agli assessorati regionali all’Economia e alla Pubblica Istruzione, per l’intuibile ragione che le scelte in materia di pianificazione didattica ricadono tutte nella piena discrezionalità dello stesso rettore e degli organi di governo universitari».
L’assessore regionale all’Economia Gaetano Armao, intanto, si dice disponibile a un incontro con i rettori per rilanciare i poli decentrati ripartendo proprio da quel decreto Baccei, che nel frattempo è stato bloccato dal nuovo governo Musumeci. Il nodo è sulla governance all’interno dei consigli di amministrazione. Insomma la Regione non vede di buon occhio la composizione di Cda in cui la maggioranza, e quindi il pieno potere decisionale, è affidato ai rettori. Se le cose non cambieranno, dal prossimo settembre seicento studenti del Polo di Agrigento saranno trasferiti a Palermo.
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