Un confronto serrato e soprattutto multidisciplinare, che punta a portare il dibattito su un tema oggi stringente, cioè l’acqua e il suo riutilizzo, al di fuori delle aule universitarie. Fondamentale è stare al passo con le nuove tecnologie e capire che «oggi il pericolo più grande non è quello batterico ma quello chimico»
Unipa, reimpiego delle acque reflue per tutelare la salute Amap: «Depuratore non è una rogna, ma produce risorse»
«L’uomo tende a pensare che l’acqua, così come l’energia elettrica, ci siano per magia. In realtà dietro a questa disponibilità c’è un’enorme complessità di attività strutturate fra loro». È con questo paragone dell’ingegnere Mariano Ippolito fra sistema idrico e sistema elettrico che ha preso il via questa mattina il convegno dedicato alla riqualificazione del sistema idrico e al trattamento delle acque reflue attraverso un approccio bio-ingegneristico, nell’aula Capitò dell’ex Facoltà di Ingegneria. Un incontro, organizzato dall’ingegnere Massimo Ilardo, presidente Feditec, e dalla dottoressa Felicia Di Falco, presidente Fedisan, che vanta la partecipazione di professori ed esperti di diverse discipline ed ambiti, interessati a portare il dibattito al di fuori delle aule universitarie e degli uffici di competenza, fino a raggiungere il cittadino stesso. «Ci auguriamo che questo incontro consenta di rafforzare la comunicazione fra amministrazioni e gestori dei servizi idrici, affinché possano collaborare al fine di sensibilizzare i cittadini su un tema che riguarda la salute pubblica», spiega infatti Ilardo, al quale fa eco proprio la collega Di Falco, ribadendo che «l’acqua è il pilastro della vita».
Anello di congiungimento, non a caso, è Angelo Siragusa, ingegnere chimico di Amap: «I gestori dei servizi idrici hanno continuamente dei tavoli tecnici e di confronto con altri gestori a livello nazionale attraverso Utilitalia, federazione che ci rappresenta – spiega a MeridioNews – Ci siamo fatti carico di fare elevare il livello del servizio di gestione del servizio idrico integrato portandolo al livello di altre città italiane. Le gestioni precedenti hanno fatto ben poco e gli impianti di depurazione necessitano di investimenti, intanto per adeguarli alle normative vigenti e poi per recepire tutto il carico organico idraulico afferente». È un modello gestionale, quello in vigore, da esportare negli impianti di depurazione dei 33 Comuni che hanno scelto di aderire alla sfida lanciata da Amap, con la speranza che sia un esempio da esportare presto anche in altre realtà.
«Attualmente ci sono impianti sottodimensionati, altri che non sono adeguati al rispetto della normativa in vigore, anche dal punto di vista della sicurezza e delle altre regole di settore. Soprattutto è mancata la professionalità di un gestore che non si deve inventare ciò che occorre, ma deve già averlo nel proprio know how di gestore del ciclo dell’acqua – continua Siragusa – Anche perché, facendo sinergia della gestione integrata di questo ciclo, si può fare economia». E poi bisogna introdurre gli aspetti innovativi, che vedano la depurazione delle acque reflue come risorsa, per uso irriguo ad esempio. Le acque reflue sono piene anche di sostanze che si possono recuperare: per produrre energia dal biogas, per recuperare i metalli che sono nelle acque, per recuperare dei biopolimeri e fare le bioplastiche, «ma ancora, e queste sono tecnologie del futuro, quello di produrre energia attraverso le microbial fuel cell, cosa che in altre nazioni già avviene. L’aspetto importante è capire che il depuratore non è una rogna da gestire, ma è, come lo usano chiamare in Israele, la fabbrica dell’acqua».
Ma quali sono le criticità a cui far fronte oggi in fatto di reimpiego delle acque reflue? «Principalmente la cattiva gestione degli impianti», spiega anche il professore Gaspare Viviani, docente di ingegneria sanitaria ambientale di Unipa. «Molti di quelli esistenti funzionano male, non rispettano i limiti. In più ci sono diverse criticità di assenza di impianti di depurazione o di assenza di collegamento alla rete fognaria degli impianti di depurazione esistenti. Questa cosa ci sta costando parecchio visto che siamo sotto procedura di infrazione da parte della Comunità europea e ci apprestiamo a pagare, e molto, per questa situazione». La soluzione, però, è semplice: «Realizzare gli impianti di depurazione e formare una scuola di gestori che siano all’altezza del servizio». Concentrandosi molto, insomma, anche sulla preparazione dei gestori. È d’accordo anche il professore Michele Torregrossa, secondo cui, «aspetti infrastrutturali a parte, bisogna anche riqualificare chi gestisce il servizio, che spesso non presenta competenza elevata». Per farlo è necessaria una formazione specifica di base, troppo spesso attribuita a figure operative che in realtà non hanno queste competenze.
L’obiettivo, però, rimane uno solo, sempre lo stesso: la tutela della salute umana. «Oggi il pericolo più grande non è quello microbiologico, i batteri o i virus emergenti, ma quello chimico – avverte l’igienista Carmelo Maida – Il progresso è così veloce che ci troviamo immesse in natura una quantità di sostanze che dobbiamo poi inseguire tecnologicamente, adeguando gli impianti, per poi poterle togliere dall’acqua dove noi stessi le abbiamo messe. Questa è la sfida che ci aspetta: un adeguamento tecnologico per fronteggiare questa invasione chimica che sta caratterizzando questo nuovo millennio». Un adeguamento, questo, necessario secondo gli esperti e che avrà probabilmente un costo inferiore rispetto a quanto spendiamo per curare le persone che si ammalano a causa di patologie correlate all’acqua. «Io preferisco puntare sulla prevenzione», conclude Maida.