«Questa è un'occasione unica per scoprire il nostro miscuglio tra cultura orientale e occidentale»: così il rettore dell'università El Manar ha accolto i giovani palermitani. Tra le lezioni e i mercati della Medina. «Un paese caotico ma dall'enorme umanità»
Unipa, per 16 studenti due settimane in Tunisia «Sembra una grossissima Sicilia, solo più antica»
Un viaggio-studio lungo due settimane in Tunisia: un’esperienza che 16 studenti dell’università di Palermo non dimenticheranno facilmente. Sono gli iscritti di Scienze della Comunicazione, che hanno vinto una borsa di studio a soggiorno breve, per due settimane di lezioni di lingua, grammatica e conversazione araba. La più grande sfida sembra però un’altra: capire i meccanismi di Tunisi, inserirsi in una società completamente sconosciuta, insolita, a tratti spartana. Ad accogliere i sedici studenti, tra dolcetti tipici in pasta di mandorle, caffè e succhi di frutta, è il rettore dell’università di Tunisi El Manar, Fethi Sellaouti. L’aula, di norma adibita alle riunioni del rettorato, brulica di gioventù straniera.
«Siete arrivati in un momento storico per la Tunisia – dice Sellaouti – ieri si sono tenute le elezioni del nostro presidente della Repubblica. Per voi questa è un’occasione unica per imparare la lingua ma soprattutto per scoprire la cultura, i diversi comportamenti del popolo tunisino, miscuglio tra cultura orientale e occidentale». Sulle pareti dell’aula le foto dei rettori che dal 1991 al 2014 hanno guidato l’ateneo; tra gli otto c’è anche una donna. «La società sarà l’insegnante più importante – spiega il direttore dell’istituto di Scienze Umane, Mohsen El Khouni – vi porterà molto di più che le semplici lezioni». Rettori e vice-direttori, dirigenti e professori intervengono ordinatamente uno dopo l’altro alternando l’italiano al francese, l’arabo all’inglese, in un benvenuto istituzionale che fa sentire a casa.
Ma il viaggio non riguarda solo lo studio. Il costo della vita è bassissimo: un dinaro corrisponde a trentadue centesimi; e con un dinaro vengono due bottigliette d’acqua fresca da mezzo litro, un giornale, quattro baguette o una calamita. Il taxi è il mezzo di trasporto più utilizzato. Nelle grandi vie ne passano a volontà e in continuazione, tutti gialli e con qualche ammaccatura. Dal colore della luce si capisce se è in servizio o libero: verde significa occupato, rosso invece disponibile. La presenza del tassametro fa da garanzia. E per le ore di punta, in cui è più difficile trovare luci rosse, esiste anche un’applicazione, Bolt, che consente di prenotare la corsa.
Il traffico della città è una giungla: le frecce si usano poco e negli incroci strisce pedonali e segnali di precedenza sono rari. I semafori però hanno il conto alla rovescia e spesso i vigili gestiscono la circolazione. Le sedie tengono occupati i parcheggi sotto casa. Passeggiando per l’avenue Habib Bourguiba sembra di essere nelle Ramblas o in via Libertà. Nei bar gli uomini siedono per fumare il narghilè, tutti rivolti verso la strada, a formare una platea, e passando ci si sente osservati, come dagli anziani nei paesi di provincia.
La Medina con i suoi mercati affascina e rapisce. «È il posto che più mi è piaciuto – spiega Ilaria, una delle studentesse palermitane – Bellissima, sarei stata più di quattro ore lì dentro a comprare, conoscere, contrattare». Spezie, gelsomino, frittura, i dolcetti caldi appena sfornati: nell’aria si alternano odori, suoni e profumi. Ci sono gli artigiani ma anche semplici mercanti: chi fa i piattini, chi lavora il cuoio, chi realizza scarpe, chi vende souvenir. E poi i ristorantini, tra una bottega e l’altra, in un’armonia che sa di casa, e sembra d’essere a Ballarò.
Cartage è sporca, bella ma deludente, i siti archeologici chiudono alle 17 e avendo ogni mattina lezione c’è poco tempo per vedere tutto. Sidi Bou Said invece è una sorpresa, con i suoi panorami magici al tramonto. Una ciambella piena di zucchero, fritta sul momento, e il the alla menta con le mandorle vista mare. Blu e bianco dappertutto, profumo di gelsomino e pace per l’anima.
Il cibo è molto buono ma, tra la frittura e il piccante, bisogna fare attenzione allo stomaco. C’è il brik: una pasta fritta sottile, dalla forma triangolare, con all’interno uovo, cipolla, tonno, harissa e prezzemolo. O la fricassé: un panino fritto ripieno di condimenti a scelta tra salsine piccanti, olive, tonno e uova. Makluba shawarma, invece, è come una piadina, preparata sul momento e cotta al forno, con dentro pollo o kebab. Il cous cous viene servito in grandi quantità, un pesce intero viene poggiato sopra il condimento, accompagnato da ceci, carote bollite e patate. L’insalata di cetrioli e le patate fritte fanno da contorno.
La movida è difficile da rintracciare, al Lac 2 c’è una schiera di localetti chic aperti fino a tarda notte, ma di alcolici neanche l’ombra, bisogna andare negli alberghi per prendere una birretta. Eppure se si cerca bene le discoteche si trovano. «Le prime sere andavamo in posti chic a fare cose molto tranquille – racconta Ilaria – come fumare la shisha, mangiare una crepe, bere un the. Fino a quando non abbiamo scoperto il Carpe Diem. Un locale totalmente diverso, tanto da sentirci catapultati nel mondo occidentale: si poteva bere, le ragazze fumavano e ballavano tranquillamente, potevi parlare con gli uomini e non c’erano distinzioni».
I turisti si riconoscono subito, dalle scarpe, e spesso sono vittime di furti. Lo smartphone è tra gli oggetti più gettonati. «Mentre aspettavamo il taxi davanti l’università, un ragazzino correndo mi strappa via il telefono dalle mani – racconta Lidia, che dopo qualche attimo di esitazione inizia a rincorrerlo – Ho corso dietro al ragazzino urlando e gridando, fino a quando, dopo essermi addentrata nei vicoli insieme ad altri colleghi, non l’ho perso di vista». Le persone del quartiere escono di casa, qualcuno consiglia di andare dalla polizia a denunciare l’accaduto. «Io, ormai rassegnata, torno verso gli altri – continua Lidia -, vedo le mie colleghe che gesticolano, urlano, sorridono. Mi dicono: abbiamo il telefono. Non riesco a capire».
Due ragazzi tunisini rassicurano Lidia e lasciano al gruppo degli universitari un numero. «Per qualunque problema in zona, chiamateci» dicono. «La Tunisia l’ho vista come una grossissima Sicilia, più antica. Il viaggio è stato utile soprattutto per me stessa – tira le somme – mi sono ritrovata, nonostante in gruppo, sola in un paese diverso, fuori dall’Europa, cosa che mi ha messa molto alla prova. L’esperienza generale mi è piaciuta molto, ho avuto modo di stare più in contatto con i miei colleghi, con cui di solito i rapporti si fermano a quella che è l’università, non si ha mai l’occasione di conoscersi così intensamente come durante un viaggio di questo tipo».
«La Tunisia è un paese caotico – aggiunge, infine, anche Alessio – pieno in tutti i sensi della parola: pieno di gente, pieno di traffico, pieno di contraddizioni, di bellezza e bruttezza al tempo stesso. Tunisi è una città dalle molteplici facce: ha un lato lussuoso e sfarzoso, ma è anche molto povera. In due settimane siamo riusciti a calarci in questa realtà, vivendola nei suoi aspetti più quotidiani, grazie anche all’enorme umanità delle persone».