Non è mai facile affrontare i test d'ingresso all'università e a quanto pare è ancora più difficile e stressante farli a Catania. Vi proponiamo lo sfogo di Miriana Squillaci, una studentessa catanese che racconta di «torture» psicologiche - tra attese, soldi spesi e errori dell'ateneo - sulle pagine del giornale I Cordai dell'associazione di volontariato nel quartiere San Cristoforo Gapa
Unict, test di accesso iniqui e stressanti Studentessa: «Minano dignità e autostima»
Vi scrivo da un aereo diretto a Bucarest (quasi l’anno scorso ormai, vi ho raccontato della mia esperienza di Servizio volontario europeo proprio li e che adesso, sta quasi per concludersi). Penso che queste tre settimane a Catania sarebbero state migliori se solo non mi fossi riempita di stress a causa dei test di ammissione all’università, che sono poi il motivo per cui mi trovo su questo aereo a soli venti giorni dalla chiusura del mio progetto. Di test ne ho fatti tre, non perché fossi indecisa su cosa voglia studiare o fare nella mia vita, piuttosto perché avevo paura che 80 domande e 2 ore potessero determinare il mio futuro: se non passi perdi un anno, ti scoraggi, ti convinci di non essere abbastanza brava e che forse dovresti smetterla di sprecare 40 euro per test e mesi di studio. Ma voglio spiegarvi meglio, voglio che possiate arrabbiarvi, o forse scoraggiarvi, insieme a me.
Vi racconterò del mio primo test di ammissione, Filosofia: 2 ore, 80 domande, 150 posti disponibili, un’infinità di misteri. La notte prima del test non avevo dormito, pensavo e ripensavo a quali domande avrei trovato il giorno dopo. Così mi sono alzata alle 6.00 ed ho iniziato a vagare per casa in attesa che il tempo passasse. Alle 7.00 ero già alla fermata dell’autobus in via Plebiscito. «Sono solo quattro fermate per le Ciminiere, arriverò in anticipo». Ahahah si capisce che vivo in un’altra città, dove gli autobus passano ogni 15 minuti, ormai da un po’ . Ma qualcosa, finalmente, e pur si vede ed alle 8.50 arriva il 431. «Non mi eri mancato» penso. Così, in dieci minuti, mi ritrovo tra una folla di studenti, mamme, fidanzati e pure nonni, forse più ansiosi di me, intenti a ripassare i primi, ed a tranquillizzare tutti gli altri. L’attesa continua, mezz’ora, poi un ora, poi una e mezza, il tempo sembra non passare mai in mezzo a questa piazza di una città che non sento più mia. Alla fine il personale universitario inizia a chiamarci e noi ci disponiamo in file che danno la sensazione dell’immobilità.
Davanti a me sento chiacchierare due amiche: «L’anno scorso non sono riuscita ad entrare per poco in Beni culturali, non volevo sprecare un anno e così ho scelto di fare i corsi singoli. Mi sono costati di più di una normale tassa universitaria (pagare un corso singolo ti permette di seguire e darti una materia pagandone i crediti, che vanno dalle 10 alle 30 euro a seconda del reddito famigliare) ma almeno mi sono già data sei materie su sette. Adesso devo rifare il test e se non lo passo dovrò continuare così e riprovare ogni anno». Alla faccia del diritto allo studio e della meritocrazia, è solo una questione di soldi e fortuna, vorrei dirle…
Alla fine il mio turno arriva: firmo, prendo la mia «letterina» ( che indica la stanza dove farò l’esame ) e pure la bottiglietta d’acqua «offerta» dall’università, rigorosamente Nestlé. Pensavo che l’attesa fosse finita, ma era evidente che mi sbagliavo ! Era semplicemente iniziato il «secondo tempo».
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