Una partita di calcetto per fare goal contro la mafia Sul campo da gioco il ricordo di Calogero Di Bona

Non solo intitolazioni, cerimonie e targhe. Per fare memoria possono bastare anche un campetto e un pallone. Persino per ricordare chi se n’è andato tragicamente, come il maresciallo Calogero Di Bona, guardia penitenziaria all’Ucciardone di Palermo – che oggi porta anche il suo nome -, ucciso dalla mafia il 28 agosto 1979. Un appuntamento, quello col pallone, che arriva quest’anno alla quinta edizione e che vede scendere in campo, nel segno del ricordo, squadre d’eccezione. Ci sono infatti gli ex colleghi di categoria del maresciallo, gli agenti di polizia penitenziaria, ma anche gli agenti della polizia di Stato, i carabinieri e la municipale. Ma ogni anno non perde l’occasione di tentare qualche goal anche Giuseppe Di Bona, primogenito del maresciallo. «Si fa davvero tutto per la memoria, affinché questa non si eclissi mai», commenta infatti.

Memoria sì, ma anche sano divertimento. Sulla scia anche di quelle che sono state le più grandi passioni di Di Bona. Tra cui proprio il pallone. «Mio padre adorava il calcio, la domenica andava quasi sempre allo stadio e quando potevo anche io andavo con lui – ricorda il figlio -, ovviamente tutti e due a tifare Palermo». Ci tiene a sottolinearlo, Giuseppe. Questa iniziativa si realizza ormai da cinque anni proprio grazie all’input della famiglia, assecondata dalle istituzioni locali. «È un evento che anno dopo anno è cresciuto sempre di più e che ha visto partecipare tante squadre delle forze dell’ordine, tutte entusiaste di poter dare il loro personale contributo».

Dopo l’intitolazione del carcere Ucciardone, dove ha prestato servizio, decisa lo scorso gennaio, la famiglia di Calogero Di Bona ha incassato un’altra vittoria in fatto di memoria, con la piantumazione di un albero in suo onore avvenuta quattro mesi fa, in occasione del 39esimo anniversario dell’omicidio. Il caso Di Bona, però, nel 1979 è all’inizio solo un caso sospetto di scomparsa. Il primo a indagare è il giudice Rocco Chinnici. Ma le investigazioni procedono fino alla sua morte, avvenuta nel 1983. Dopo un arresto improvviso e poi anni e anni di silenzio per i familiari. Fino al 2010, quando la situazione si sblocca grazie all’impegno del figlio Giuseppe, che scopre per caso l’esistenza di un verbale all’interno di una sentenza di oltre 800 pagine nei confronti di Bruno Contrada, in cui si faceva riferimento proprio alla scomparsa del padre. Sarà l’input che permetterà di riaprire il caso, dandogli un nuovo insperato vigore e mettendo in moto la macchina giudiziaria. 


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