Ipocrisia, ingenuità ed ambizione vengono messi in scena sin dall’inizio dello spettacolo con l’ilarità dello sfondo resa da pannelli elettorali grotteschi. Vera protagonista è l’antitesi che vede contrapposti i due padroni del palco: Tartufo (un camaleontico Giuseppe Calaciura), ospite di una famiglia benestante, e il magistrato Orgone (il sempreverde Piero Sammataro), suo benefattore, padrone di casa che con tanto zelo si prende cura di lui. Il primo, che trucco e vestiario rendono una via di mezzo tra Renato Zero e Severus Piton, bramoso di poter un giorno possedere tutti i beni della famiglia, agisce con circospezione, scruta, ascolta, si insinua nella casa fino a piantar radici, riuscendo nel suo intento: farsi designare dall’ingenuo Orgone come suo erede universale, escludendo dal testamento i suoi due figli.
A far da cornice a questa eterna opposizione sono gli altri abitanti della casa, che partecipano continuamente alle azioni, si informano, ascoltano e indagano, senza comprendere l’atteggiamento dell’imprudente capofamiglia. Ma in realtà non possono fare molto altro, dato che il volere del padrone di casa non può essere discusso, addirittura neanche davanti all’evidenza dei fatti! Così né la moglie Elmira (Maria Grazia Cavallaro in tutto il suo fascino), né il fidato cognato Cleante (Saro Pizzuto), neppure il figlio Damis (Salvo Musumeci) – bizzarro tanto nel modo di parlare, quanto nel modo di vestire -, né tanto meno la cameriera impicciona, Dorina, riusciranno a far cambiare idea al credulone e testardo signore. La domestica – una divertentissima Eliana Esposito, però, per lo meno avrà il merito di dissuadere la figlia di Orgone, Marianna (Sabrina Tellico), ad esaudire le volontà del padre e sposare proprio lo scaltro Tartufo. Alla fine, comunque, la giustizia trionferà, anche con un po’ di fortuna ed un piccolo aiuto da parte del procuratore generale, testimone dell’atto di eredità e soprattutto grande amico del magistrato, che acconsentirà all’annullamento dell’avventata manifestazione di volontà, riportando tutto alla normalità.
“E tutto è bene quel che finisce bene” ma il lieto fine è tuttavia velato da un’amara e realistica constatazione che l’attento regista catanese vuole aggiungere a conclusione della sua versione della pièce. Il suo è un tentativo di dare visivamente ed immediatamente risposta ad un quesito sulla figura del tartufo che sembra restare aperto nell’opera francese. E lo fa con una sottile ironia, con un ballo di gruppo, che ricorda le antiche danze seicentesche e sulle note di Dancing Queen e Tra palco e realtà di Ligabue: ogni attore si muove a ritmi cadenzati, mostrando il poster di personaggi storici e attuali noti a tutti (Mussolini, Hitler, Berlusconi, Bush, Bin Laden tra questi), senza tralasciare alcun riferimento alla realtà locale, come sembrano voler suggerire i cannoli offerti in sala e gustati in scena.
Insomma, si manifesta il volto di alcuni degli innumerevoli “tartufi” che hanno scritto e continuano a scrivere – ahinoi – importanti pagine della nostra storia.
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