«Un giornale, non carta assorbente»

Novantadue anni di storia progressista. Quasi un secolo di giornalismo di denuncia, inchiesta e analisi. E’ così che gli ex collaboratori ricordano L’Ora, storica testata palermitana, e il suo metodo, esperimento quasi unico nel panorama nazionale fino a qualche decennio fa.

Fondato a Palermo nel 1900 su iniziativa della famiglia imprenditoriale dei Florio, L’Ora ha sospeso le pubblicazioni nel maggio del ’92, dopo una serie di controversi passaggi di gestione. Da sempre vicina agli ambienti di sinistra, nel 1954 la testata viene comprata da una società di proprietà del Partito Comunista Italiano, che ne diventa l’editore. Storico direttore di quegli anni di svolta è Franco Nisticò, che guiderà il giornale fino al 1975 rivendicandone sempre l’autonomia politica. Un periodo ricordato come uno dei più brillanti della testata, sempre in prima linea con le sue inchieste, gli scoop e il peso politico e sociale. Sono gli anni dell’antimafia, di cui L’Ora è stata per decenni la porta bandiera. Un triste primato testimoniato dalla morte di tre dei suoi cronisti: negli anni Sessanta Cosimo Cristina, poi Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato negli anni Settanta. La volontà del Pci di radicarsi anche in città politicamente ostili, porterà all’apertura di diverse redazioni periferiche, tra cui una a Catania nel 1972, durata solo quattro anni. Sono gli anni del referendum sul divorzio e della preparazione del compromesso storico: forse proprio la nuova credibilità elettorale assunta dal partito lo spingerà a disfarsi del giornale, vedendo il suo ruolo ormai esaurito.

Qualche giorno fa, a quasi un anno dalla scomparsa del direttore Nisticò, una giornata di studio a Palermo ha ricordato quei vent’anni della testata. Ne abbiamo discusso con Franco Nicastro, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, ma anche ex collaboratore e vicedirettore de L’Ora.

La sua carriera giornalistica inizia proprio a L’Ora. Quali sono i suoi ricordi del giornale e dei professionisti che lo hanno animato?
«Era soprattutto un collettivo di lavoro con dei solidi legami umani, prima che culturali e professionali. Anche se ognuno di noi aveva idee diverse, la nostra vita si svolgeva insieme dentro e fuori dal giornale: ci vedevamo la sera e anche le nostre famiglie si frequentavano. Avevamo un senso di missione, sentivamo che la nostra non era una professione come un’altra e la interpretavamo in un modo condiviso, che veniva dalla storia del giornale: quello dell’approfondimento, che non si limitava solo a registrare i fatti in modo superficiale, come accade oggi, ma analizzandoli. Anche la cronaca diventava intellettualmente alta e ogni fatto si trasformava in una sorta di reportage, con un sforzo non solo di raccontare ma anche di dare una chiave di lettura. Si faceva quella che poi è passata nei manuali di giornalismo come controinformazione, ma era informazione autentica. Certo, L’Ora era sicuramente un giornale contro il potere e aveva una sua linea, ma era proprio questa sua forza a permetterle di scriveva l’agenda per la politica, mentre oggi succede il contrario».

Lei sottolinea le molte differenze con l’informazione di oggi: pensa che sarebbe di nuovo possibile fare un giornale come L’Ora? Se no, perché?
«Era un lavoro molto faticoso, con un modello difficile da riportare in vita perché non ci sono più le condizioni. Quella de L’Ora è un’esperienza legata ad una stagione e ad un tratto di storia della Sicilia che adesso è molto diversa. Il ruolo dei giornali oggi è meno penetrante, invece L’Ora aveva un suo peso: veniva stampato a Palermo, ma riusciva a parlare a tutta l’Italia. Si rapportava al dibattito nazionale ed era capace di interpretarlo, dando un proprio contributo».

Parlava da Palermo, ma in una parte della sua storia aveva il contributo di alcune redazioni periferiche anche nella Sicilia orientale, come quella di Catania e Messina. Qual è stato il loro ruolo?
«Catania e Messina erano due città politicamente schierate su posizioni diverse, dove l’arrivo del giornale smuoveva le acque e apriva ad un confronto democratico. Era seguito, vendeva molto, perché rompeva un quadro omologato in cui i giornali erano parte integrante del sistema di potere. L’Ora, invece, era certamente un quotidiano schierato, ma non settario né ideologizzato. Soprattutto durante la direzione di Franco Nisticò, che si preoccupava che i propri redattori non assumessero ruoli nella politica attiva».

E poi c’era il forte impegno antimafia a smuovere le acque dell’informazione dell’isola. Testimoniato anche dal sacrificio della vita di molti cronisti de L’Ora. Qual è stata, secondo lei, la specificità del suo metodo?
«Il tema della mafia è stato imposto al mondo politico proprio perché c’era un giornale come L’Ora che faceva delle inchieste, diventate patrimonio anche della Direzione Distrettuale Antimafia e spunto per i suoi lavori. Era un giornale scomodo per i poteri costituiti, perché non dava mai le versioni ufficiali senza prima averle controllate. Il giornale non era una carta assorbente: non c’era una visione acritica ad un punto di vista, ad una notizia, ad un comunicato. E spesso quello che raccontavamo contrastava con le versioni ufficiali: penso agli scontri con la Questura e alle denunce di vari tentativi di depistaggio o la costruzione di false notizie da parte dei servizi, come quelli del caso De Mauro. Allora abbiamo chiesto addirittura le dimissioni del questore».

Un giornale libero da poteri, ma su cui resiste ancora un tabu legato al ruolo del suo editore, il PCI, nel lento declino fino alla chiusura. Cosa ne pensa?
«I giornali declinano quando la loro funzione è esaurita. La crisi arrivò negli anni ’70, quando finì la forza dei cosiddetti giornali fiancheggiatori, come L’Ora e Paese Sera. C’è da dire che queste erano anche delle grandi imprese, costose, e che il Pci non aveva più la forza di sostenerle. Si spaventò soprattutto nel ’92 quando le inchieste su Mani Pulite misero in crisi anche i canali di finanziamento dei partiti: fu necessario tagliare parecchi rami, tra cui i giornali. Ma c’erano state anche delle vicende societarie non esemplari: era mancata l’efficienza gestionale, si improvvisava. Io, durante la mia vice direzione, ho cercato di mantenere una linea di autonomia politica, ma le vicende interne al Pci e al Pds [Partito Democratico della Sinistra, fondato nel 1991 dopo lo scioglimento del Pci ndr] erano tali che questa cultura non riusciva a passare. C’era chi pensava di poter occupare il giornale e utilizzarlo come strumento di agitazione politica. Ne hanno snaturato la sua stessa funzione e il ruolo che aveva avuto negli anni. Così era inutile continuare».

Fin qui, il passato. Adesso, tra i progetti per il futuro, c’è quello della digitalizzazione dell’archivio de L’Ora. Cosa è emerso dalla giornata di studi?
«E’ un progetto della Biblioteca Centrale della Regione, che ha acquisito l’archivio del giornale che si stava disperdendo, salvandolo. Da tempo si è posto il problema della fruizione di questo materiale e si pensava alla strada dell’online. Ma è un lavoro enorme, anche perché si tratta di un giornale che ha vissuto 92 anni. Al momento, però, non ci sono date certe: adesso hanno ultimato la catalogazione del cartaceo e stanno aspettando di vedere se è possibile usufruire di finanziamenti comunitari per il passaggio in digitale».


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