Uccise due rapinatori, difesa chiede assoluzione «Percezione alterata, era incapace di intendere»

«Non può essersi trasformato da vittima a carnefice, perché qui non abbiamo davanti il dottor Jekyll e il signor Hyde». Un concetto solo appartenente semplice, sintetizzato dalle parole dell’avvocato Orazio Gulisano, per tracciare i contorni della vicenda, decisamente più complessa, che ha come protagonista Gianni Guido. Il gioielliere di Nicolosi che nel tardo pomeriggio del 18 febbraio 2008 uccise due rapinatori, ferendone un terzo. Undici anni dopo l’orafo si trova alla sbarra, imputato davanti alla corte d’Assise di Catania con l’accusa di duplice omicidio volontario e del tentativo di freddare Fabio Pappalardo, costituitosi parte civile insieme ai familiari delle altre vittime. L’orafo adesso rischia 17 anni di carcere, come chiesto dall’accusa.

Rapina? Quella è stata una spedizione punitiva  

Un processo complicato in cui potrebbero risultare decisivi gli aspetti psicologici di quel pomeriggio. Analizzati in tandem dagli avvocati Gulisano e Michele Liuzzo. La loro è una lunga e appassionata discussione difensiva, durata quasi quattro ore. Mentre parlano il gioielliere ascolta tra i banchi. La moglie, suo malgrado coprotagonista dei fatti, siede tra il pubblico. Quando i malviventi entrano nella gioielleria di via Etnea, la prima persona che si trovano davanti è proprio la signora. In quel momento in compagnia di un cliente. Guido, invece, è dentro a un laboratorio attiguo all’area vendita. Pochi attimi e la moglie del gioielliere ha una pistola puntata contro, poi rivelatasi a salve ma senza il tappo rosso di riconoscimento. L’avvocato Liuzzo ripercorre la scena in aula: «Non c’è nessun dubbio che la signora sia stata picchiata. Lo dice il processo a Pappalardo (condannato per lesioni e tentata rapina) ma anche l’ecchimosi al viso e i capelli che le sono stati strappati». Elementi che per il legale non possono essere smentiti anche se «in questo processo si è messo in dubbio il pestaggio, definito dalle parti civili un artefizio per giustificare l’azione del marito». 

Guido prima di colpire a morte due rapinatori, Davide Laudani e Sebastiano Catania, spara due colpi di pistola in aria all’interno del laboratorio in cui si trova. I malviventi però rimangono al loro posto, con la costante minaccia della pistola premuta con forza contro il petto della donna. «L’azione si svolge in una gioielleria di dimensioni ridotte, inframmezzata da scaffali e banconi e in cui è presente pure un cliente – continua l’avvocato Liuzzo -. C’era un dinamismo caotico e Guido quando riesce a uscire dal laboratorio spara altri otto colpi, in un lasso di tempo compreso tra i due e gli otto secondi».

Degli otto proiettili i primi due non vanno a segno, secondo la difesa anche questi sarebbero stati esplosi per allontanare Pappalardo e soci, mentre gli altri sei risultano fatali. Uno si conficca proprio nel polpaccio di Pappalardo causandogli la frattura di tibia e perone. «La reazione del gioielliere non è stata quella di chi vuole uccidere – aggiunge l’avvocato Gulisano – Se fai una rapina e sparano quattro colpi d’avvertimento vai via. Invece loro hanno insistito con quell’azione». Secondo la ricostruzione dei legali il commando sarebbe stato composto da almeno altre due persone, un palo e l’autista del mezzo per fuggire. Ma la tentata rapina avrebbe nascosto anche altro. «Dalle intercettazioni in carcere – prosegue l’avvocato Liuzzo – scopriamo che ad organizzare tutto è stato il gruppo di Cosa nostra di Aci Catena». Tra i personaggi il pluripregiudicato Stefano Sciuto, figlio del defunto capomafia Nuccio coscia. Il rampollo, attualmente detenuto fuori dalla Sicilia, è imputato nel processo Aquilia sui rapporti mafia-politica ad Aci Catena. «Quella non è stata una rapina – gli fa da eco Gulisano – ma una vera e propria spedizione punitiva: il gioielliere che ha solo provato a difendere se stesso e la moglie».

Troppe sette persone per un colpo in una piccola attività commerciale 

Per la difesa sarebbe stato troppo mobilitare sette persone per assaltare una piccola bottega nel centro di Nicolosi. «Quella non è Tiffany. Forse volevano dimostrare di essere capaci di portare a termine il loro compito, come si chiede a quelli che a Palermo chiamano picciotti?», si domanda il legale. I tanti dubbi di quella sera di febbraio vengono spulciati uno dopo l’altro. Liuzzo analizza la traiettoria dei proiettili, per cercare di fare cadere l’ipotesi dei colpi sparati alle spalle, i possibili movimenti dei malviventi ma anche alcune falle nelle indagini. «Rileggendo la requisitoria dell’accusa (in aula la pm Antonella Barrera) mi è venuta in mente la scena iniziale del film di Sherlock Holmes. Il protagonista combatte in un fight club di Londra, incassa i colpi, sembra sconfitto, fino a quando diventa consapevole delle sue azioni e riesce ad avere la meglio. Un po’ come viene descritto il gioielliere».  

«Guido ha sparato vedendo la moglie cardiopatica svenuta – continua l’avvocato Gulisano – Forse pensava che era morta per infarto». Per il legale, a cui è affidata la parte finale della discussione sugli aspetti psicologici del caso, l’artigiano avrebbe sparato avendo «una percezione disturbata di quel momento. Era pietrificato dal terrore ed era come se non ci fosse, in un contesto di incapacità di intendere e di volere». Per questo la difesa ha chiesto l’assoluzione con riconoscimento della legittima difesa e la derubricazione del tentato omicidio nel reato di lesioni colpose.


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