Tutta la verità di Contrada nell’esposto del 2007 «Contro di me un gioco al massacro senza limiti»

«C’è il dottor Contrada che è a disposizione della mafia». Sono frasi come questa, pronunciata dal pentito Gaspare Mutolo davanti ai giudici di Caltanissetta il 7 giugno ’94, che secondo l’ex numero 3 del Sisde avrebbero contribuito a renderlo, agli occhi di magistrati e opinione pubblica, il cattivo perfetto da coinvolgere nella strage di via d’Amelio. Frasi e dichiarazioni, di Mutolo e di altri collaboratori giustizia, contro cui lo stesso Contrada ha sempre puntato il dito. Ma nel suo lungo elenco di diffamatori ci sono anche ex colleghi del mondo della giustizia, lo stesso di cui lui ha fatto parte. Di ognuno ha fatto nomi e cognomi, tirando in ballo fatti, circostanze, affermazioni, contraddizioni e smentite. Mettendo poi tutto insieme in un esposto-querela di 61 pagine presentato poco prima di entrare nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel marzo del 2007. Un documento accompagnato da un centinaio di allegati. «In quelle carte si provava in maniera inconfutabile che c’era stato un tentativo di depistaggio nelle indagini sulla strage di via d’Amelio. Ma tutto è stato archiviato, per vari motivi, tranne un filone di questa inchiesta che era seguita dal pubblico ministero Luca Tescaroli, poi trasferito a Catania». Lo ha dichiarato lo stesso Contrada, tirando fuori ancora una volta dai cassetti della memoria quello stesso documento, appena una settimana fa al processo a carico degli ex poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata.

«Io Contrada Bruno, dirigente generale della p.s. espongo e denunzio…». Inizia così quel forse poco noto documento del 2007. «Chiedo che siano perseguiti e puniti tutti coloro che si sono resi responsabili di azioni e comportamenti integranti estremi di reato, quali calunnia e diffamazione, falsa testimonianza e false dichiarazioni, violazione del segreto investigativo e sviamento delle indagini, favoreggiamento personale e omissione di atti di ufficio, o altri illeciti penali che verranno eventualmente riscontrati». Lo aveva detto, insomma. «Sviamento delle indagini», depistaggio in altri termini. Ma contro chi puntava il dito Contrada? Il suo racconto parte da lontano, dai giorni immediatamente successivi alla strage di via d’Amelio, quando il maggiore dei carabinieri Umberto Sinico, all’epoca alla sezione anticrimine di Palermo, riferisce al sostituto procuratore Antonio Ingroia «che era stata notata, rilevata e accertata la mia presenza sul luogo della strage qualche attimo dopo la deflagrazione». Un dettaglio non da poco ma che il maggiore non avrebbe riscontrato personalmente, ma «attraverso persona a lui “ben nota”, sulla cui “attendibilità non aveva alcun dubbio”; persona, però, che non aveva avuto cognizione diretta e personale del fatto, ma che, a sua volta, l’aveva appresa da un altro», che l’aveva invece saputo dagli agenti della prima volante giunta in via d’Amelio pochi minuti dopo l’esplosione.

Una segretezza dovuta al fatto che la fonte del maresciallo «temeva fortemente per l’incolumità dell’altra persona da cui derivava la notizia». Un nome che Sinico non farà per diversi anni, dal ’92 al ’98, malgrado l’insistenza di più magistrati. Salvo poi rivelarlo in seguito: si tratta del poliziotto Roberto Di Legami, che però negherà sempre di aver mai saputo e riferito della presenza di Contrada in via d’Amelio quel giorno. Intanto Sinico a cinque mesi dalla strage riferisce queste informazioni ai magistrati Cardella e Boccassini. Una confidenza che il suo caro amico, «soggetto attendibile, fidato, di indiscutibile moralità» gli restituisce dopo che lui stesso gli avrebbe confidato altri due dettagli: il primo è quello di un presunto incontro fra Borsellino e lo stesso Contrada a Roma, dopo le dichiarazioni rese da Mutolo sul numero 3 del Sisde e sul giudice Signorino; il secondo sarebbe invece uno sfogo del sostituto procuratore De Francisci che avrebbe raccontato al maggiore che «fino a quando ci sarebbero state in giro persone come Contrada, episodi come quelli di Borsellino si sarebbero ripetuti».

Tutte illazioni? A riferire qualcosa di simile nel ’92 è anche il maresciallo Carmelo Canale, che era stato in servizio alla procura di Marsala, che racconta di aver parlato personalmente con Borsellino due giorni prima della strage (telefonata che tuttavia non risulta nei tabulati di Borsellino): al telefono il magistrato gli avrebbe detto dell’incontro con Mutolo e delle sue dichiarazioni accusatorie su Contrada e di aver anche incontrato quest’ultimo a Roma, dichiarazioni mai verbalizzate però. Canale addirittura torna ancora più indietro col suo racconto, tanto da riferire ai due magistrati di aver anche ascoltato dal vivo una conversazione in cui Falcone avrebbe detto a Borsellino che «era sicuro che dell’attentato all’Addaura era responsabile Bruno Contrada, e che, se ce l’avesse fatta a diventare procuratore nazionale, gli avrebbe messo i ferri». Racconta anche che all’epoca il prefetto Angelo Finocchiaro sospettasse a sua volta di Contrada, in quanto lo riteneva il possibile autore dell’anonimo che era arrivato dopo la morte di Falcone, e sul quale lui stava indagando. Ma lo stesso prefetto smentì ai pm dell’epoca di aver mai espresso dubbi su Contrada a Borsellino. Accuse gravi, secondo Contrada «amplificate dai mass media» determinando un’immagine negativa sull’opinione pubblica. Del fantomatico incontro Borsellino-Contrada, però, non ci sarebbe traccia nell’agendina degli appuntamenti del giudice, che annotava ogni impegno e spostamento. Circostanza che Canale si spiega ipotizzando che quell’incontro non fosse programmato, sia perché Borsellino «non avrebbe mai accettato di incontrarsi con Contrada», sia perché, altrimenti, sarebbe stato annotato nell’agendina.

Intanto arriva il 24 dicembre ’92, giorno in cui Contrada, sulla scorta delle dichiarazioni di Mutolo e altri pentiti, viene arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa e rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea a Roma. «Ho motivo di ritenere che tali notizie (tutte senza fondamento alcuno e incontrovertibilmente false) diffuse da appartenenti alle forze dell’ordine (Sinico, Canale, Mancuso) e portate a conoscenza delle procure di Palermo e di Caltanissetta e della stampa, abbiano contribuito o influito a creare un clima a me avverso e ostile in cui è maturata peraltro la determinazione dei magistrati della procura di Palermo di richiedere il mio arresto», osserva Contrada sempre nel documento del 2007. «Tutto appariva essere il prodotto di una occulta regia tendente a presentarmi quale responsabile o corresponsabile o comunque coinvolto sulle stragi». Successivamente, infatti, Contrada viene iscritto nel registro degli indagati per la strage di via d’Amelio. Un’ulteriore accusa pesantissima, dettata da quei due dettagli: la sua presunta presenza in via d’Amelio poco dopo la strage e per il presunto incontro con Borsellino dopo le dichiarazioni di Mutolo. «Dichiarai che il pomeriggio del 19 luglio 1992, e quindi al momento della strage, ero in alto mare, a bordo di una imbarcazione di un mio amico, in compagnia di dieci persone, tutte indicate e facilmente identificabili – recita il documento del 2007 -. I giorni 16 e 17 luglio 1992 non ero a Roma ma a Palermo, dove mi trovavo in ferie dal 10 luglio precedente». Il 7 marzo ’95 il procedimento a suo carico per strage viene archiviato e il gip parla, rispetto a quanto riferito da Sinico e Canale, di congetture senza conferma e per Contrada di un «alibi di forte intensità persuasiva».

Ma Contrada ce l’ha anche con Gaspare Mutolo, l’ultimo pentito a incontrare Borsellino. E che in più di un’occasione, nel ’96, racconta del suo primo interrogatorio col giudice del primo luglio ’92, precisando che lui avrebbe accusato Signorino e Contrada di essere collusi solo in presenza di Borsellino e non degli altri magistrati, e che, sempre rimanendo da soli, Borsellino gli avrebbe detto che si era dovuto allontanare per un’ora durante quell’interrogatorio, pausa nella quale avrebbe incontrato suo malgrado Parisi e Contrada. Mentre nella sentenza del Borsellino Ter si spiega che l’allontanamento improvviso del giudice sia stato dovuto al suo ritorno immediato a Palermo con un volo. Affermazioni che Contrada contesta fortemente, ritenendole piuttosto «tutte una pura e menzognera invenzione del pentito», più avanti infatti smentito negli orari e nelle dinamiche descritte, da lui stesso spostate in più occasioni a date e momenti differenti. Un quadro, insomma, di menzogne e calunnie costruito addosso a Contrada, a suo dire, questo l’assunto predominante su cui si basa l’esposto del 2007. Quadro restituito dalla stampa locale e nazionale che, a pochi giorni da quelle parole del pentito al processo per la strage di Capaci, dava di nuovo ampio spazio a un presunto coinvolgimento di Contrada con il 19 luglio ’92.

«Ciò avvenne proprio nel momento (ottobre ‘96) in cui stava per essere depositata la sentenza della V sezione penale che, sei mesi prima, mi aveva condannato per concorso esterno in associazione mafiosa». Una coincidenza che lo mette subito in allarme. Per Contrada infatti si trattò di una «devastante e ingiusta campagna di stampa». Qualche pagina più avanti, poi, Contrada ripercorre quello che lui stesso definisce «un incarico indubbiamente anomalo e inquietante», cioè quello che l’allora pm Ingroia avrebbe affidato l’8 novembre ’98 proprio al maresciallo Canale, dopo la strage del 19 luglio trasferito a Roma, per analizzare l’utenza telefonica dello 007 palermitano. «Cioè a meno di un anno dal mio arresto e nel bel mezzo delle dichiarazioni accusatorie e relativi aggiustamenti e modifiche del Canale stesso e del pentito Mutolo. Da tutti gli atti processuali non risulta che Canale abbia mai riferito su queste indagini a lui ad personam delegate». Fino a un nuovo presunto diffamatore, tale Francesco Elmo, prima collaboratore dei servizi segreti e poi collaboratore di giustizia dal ’96, la cui fantasia potrebbe essere stata provocata proprio dalla descrizione che si restituiva all’opinione pubblica di Contrada, a suo dire. Anche lui, a più riprese, dice di averlo visto in via d’Amelio il giorno della strage. «Qualora si dovesse ritenere che le sue propalazioni non derivino da delirio o mitomania, si dovrebbe dedurre che esse gli siano state ispirate o suggerite da qualcuno, mosso da inconfessabili intendimenti, ma comunque riconducibili alla regia di un piano di depistaggio di indagini, di destabilizzazione, di attacco alla mia persona». Una sorta di Scarantino ante litteram, viene quasi da dire. «La situazione era diventata ormai non più sopportabile, per lo stillicidio continuo di notizie false e calunniose sul mio conto, provenienti non solo da pentiti, ma purtroppo anche da appartenenti alle forze dell’ordine – scriveva Contrada -. Notizie di cui venivo a conoscenza dalla stampa e dalla televisione».

Motivo che lo spinge, a gennaio ’98, a presentare alla procura di Caltanissetta un esposto-denuncia-querela contro Mutolo, Elmo, Sinico e Canale. «Chiunque abbia detto che io ero in via d’Amelio il 19 luglio 1992 al momento o subito dopo la deflagrazione, ha mentito», insiste intanto Contrada. Che si domanda soprattutto perché indagare per anni sulla verità o meno della sua presenza lì il giorno della strage, malgrado dieci testimoni avessero dimostrato che lui al momento dell’esplosione si trovava in alto mare a bordo di un’imbarcazione con amici. E poi c’è anche il pm Luca Tescaroli che, attraverso alcune dichiarazioni rilasciate al giornale La Stampa nel 2000, vorrebbe Contrada coinvolto ancora nella strage di via d’Amelio, ma anche di Capaci e nel fallito attentato dell’Addaura: «Io venivo indicato, additato e accusato quale responsabile delle tre stragi. Ancora una volta, e questa volta da un magistrato nel corso di un processo in cui ero del tutto estraneo» (quello sull’Addaura ndr). Tesi che lo stesso magistrato sosterrà di lì a poco nel suo libro dedicato all’assassinio di Falcone. Malgrado Contrada fosse di fatto estraneo ai due processi per l’Addaura e Capaci. «A questo punto, non si può non rilevare che se Tescaroli, al processo d’appello per la strage Falcone e al processo per l’attentato all’Addaura, si è determinato ad enunciare, in termini non equivoci, siffatte gravissime accuse o ipotesi accusatorie sulla base della conoscenza da parte sua della esistenza di nuova attività investigativa su elementi di responsabilità dello scrivente, non v’è dubbio alcuno che in tal caso sarebbe stata posta in essere una palese violazione del segreto istruttorio o investigativo. Se, viceversa, tale attività investigativa non esistesse, non vi è, parimenti, dubbio alcuno che è stata realizzata una condotta di gravità rilevante per le circostanze e le modalità di diffusione delle accuse».

Intanto, finiscono tutti assolti dal reato di calunnia, ognuno con diverse motivazioni, rispetto all’aver affermato la presenza di Contrada in via d’Amelio quel 19 luglio, ma di fatto non è stato possibile risalire a chi per primo abbia messo in giro questa ipotesi. «Dal contesto della vicenda processuale Di Legami (prima fonte di Sinico), e principalmente dalla lettura della sentenza, si evince un solo dato certo e nel contempo di estrema gravità: che dopo la strage Borsellino, ufficiali dei carabinieri, di cui alcuni del Ros, avevano diffuso la notizia falsa e di portata devastante per la mia persona, del mio coinvolgimento nell’efferato crimine. E portata a conoscenza dei magistrati e della stampa. Non sono in grado di dire da cosa sia stato determinato siffatto comportamento comunque disdicevole, deprecabile, inescusabile – scrive -. Certo è che da tale loro modo di agire ho subito ingiustamente un danno enorme e irreparabile sul piano morale e giudiziario e, sinora, ogni mia iniziativa per ottenere giustizia è risultata vana. Un vero e proprio gioco al massacro senza fine e limiti» .Iniziato, a suo dire, da quel maresciallo Canale che nemmeno lo conosceva personalmente. E che, sentito in occasione anche di altri processi, potrebbe anche aver tentato velatamente di mettere in relazione la presunta presenza, poi smentita, di Contrada in via d’Amelio con la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino: «Non intendo fare dietrologie o esprimere giudizi – scrive l’exx 007 nell’esposto -, ma i motivi di inquietudine non sono certo pochi o irrilevanti. Ritengo che in uno “Stato di diritto” non sia possibile che un cittadino sia per anni indicato e additato, accusato e indagato di efferati crimini, quali stragi di magistrati e poliziotti, sulla base di meri sospetti, arbitrarie supposizioni, vaghe illazioni, pure invenzioni, rivelatisi tutti infondati in modo certo e incontrovertibile. Non è possibile che restino impuniti comportamenti che mi hanno ingiustamente procurato un enorme e irreversibile danno sotto ogni aspetto».


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