Nella storia della criminalità organizzata di Catania, il cognome Zuccaro ritorna nelle parole dei pentiti, intrecciato con quello della famiglia Santapaola-Ercolano. Per la prima volta finisce in manette anche il secondogenito di Maurizio
Tre generazioni di Zuccaro, il ritratto di una «famiglia» Il nonno Saro, il sanguinario Maurizio e l’artista Andrea
La narrazione era quella del giovane proveniente da una famiglia difficile che tenta di andare per la sua strada, accompagnato dalla musica. Neomelodica, certo, ma non per questo meritevole di pregiudizio. Per questo quando, ieri, è stata diffusa la notizia dell’arresto di Andrea Zeta nell’ambito di un’inchiesta antimafia che da lui prende il nome, i suoi fan in giro per l’Italia non avevano dubbi: «Non ci credo, lui con la malavita non c’entra niente». Eppure la procura di Catania lo accusa di essere stato al vertice di un gruppo legato alla famiglia Santapaola-Ercolano, assieme al fratello Rosario, sotto le direttive del padre Maurizio, costretto su una sedia a rotelle e detenuto nel carcere di Milano Opera. Perché per gli uomini Zuccaro quella mafiosa, secondo gli inquirenti, è una tradizione che si tramanda di generazione in generazione.
A cominciare è Saro, capo decina di San Cocimo, a nord del quartiere di San Cristoforo. Morto nel 2005, pluripregiudicato, famoso per i beni – in parte passati al figlio Maurizio – e per il suo ruolo di spicco nel clan. Di un esponente con il suo nome, il mafioso pentito Antonino Calderone tratteggia il ritratto. «C’era una ragazza che faceva la segretaria per il giudice Grassi e che comprava i polli e le uova fresche da un personaggio di rilievo della criminalità catanese, Saro Zuccaro – si legge nel libro Gli uomini del disonore, di Pino Arlacchi – Questo Zuccaro era arrivato al punto da domandare ogni tanto alla ragazza: “Ma il giudice Grassi ancora non li ha firmati quei mandati di cattura?“. Detto proprio così, mentre incartava una coscia di pollo o un pezzo di tacchino». Saro Zuccaro incartava, la malavita prendeva e portava a casa. Informazioni, traffici, soldi.
La strada, per l’allora giovane Maurizio, appare in discesa. Non solo parente acquisito di Nitto Santapaola (poiché cognato di Vincenzo Santapaola, nipote di Benedetto), ma anche figlio d’arte. Classe 1961, viveur della Catania da bere degli anni Ottanta, famoso per la sua affascinante mondanità in anni che per lui furono d’oro. Quelli della libertà, prima degli arresti e delle condanne. Una di quelle definitive riguarda l’omicidio di Salvatore Vittorio: era il 1996 quando l’uomo, ritenuto esponente del clan Savasta, sparisce dalla circolazione. Vittima di lupara bianca, destinato a non essere mai ritrovato. Le cose cambiano nel 2010, quando il procuratore Pasquale Pacifico, all’epoca in forza a piazza Verga, riceve una lettera anonima. Mittente, scritto a mano: il nome della vittima. E dentro le indicazioni per ritrovarla. Il corpo si trovava a pezzi in fondo a un pozzo, a Vaccarizzo, dentro a una busta di plastica con una cintura, un paio di scarpe, la fede nuziale e lo sfregio: una moneta da cento lire.
Poi c’è l’omicidio di Massimo Giordano, ammazzato per uno schiaffo alla persona sbagliata. O quello di Vito Bonanno, che secondo il pentito Santo La Causa sarebbe stato ucciso per ordine di Zuccaro perché appartenente al gruppo dei Malpassoti di Giuseppe Pulvirenti. Il capitolo più corposo, però, spetta all’accusa legata all’omicidio eccellente di Luigi Ilardo, cugino del boss Piddu Madonia, ex mafioso e confidente: nome in codice Oriente, Ilardo aveva portato nel 1995 fino al covo di Bernardo Provenzano. Il superboss latitante, padrino dei corleonesi, all’epoca ricercato numero uno a livello nazionale. Un anno dopo, nel 1996, Gino Ilardo viene freddato in via Quintino Sella, all’angolo con via Mario Sangiorgi. Per l’accusa il gruppo dei mandanti dell’assassinio era di tutto rispetto: Vincenzo Santapaola, Benedetto Cocimano, Maurizio Zuccaro e Piddu Madonia, ormai anziano, ex capo indiscusso di Cosa nostra in provincia di Caltanissetta.
Storie vecchie di anni si mischiano ad aneddoti più recenti. Sono passati solo sei anni dal 2013, anno in cui Maurizio Zuccaro torna in carcere dopo un periodo ai domiciliari nonostante le condanne definitive. Malato da tempo, il boss viene immortalato nei bagni del reparto di Ematologia dell’ospedale Ferrarotto di Catania. La procura piazza delle telecamere nascoste anche lì: le immagini mostrano l’allora 52enne inserirsi degli aghi nelle braccia e sotto l’inguine. Così sanguinava, tanto da aggravare le sue condizioni cliniche e restare incompatibile con il regime carcerario. Poi i magistrati lo inchiodano e lui torna al carcere duro.
Il primo dei suoi figli a cui viene contestata l’associazione mafiosa alla famiglia Santapaola è il 37enne Rosario. L’inchiesta si chiama Piramidi ed è datata 2017: prende il nome dal lido sul lungomare della Playa, che sarebbe stato in realtà di proprietà proprio della famiglia Zuccaro. Per gli inquirenti, nella costruzione dello stabilimento balneare di viale Kennedy sarebbero confluiti i soldi della cosca, centinaia di migliaia di euro lavati all’ombra di sdraio, ombrelloni e serate danzanti nella discoteca notturna. Un pezzettino di un impero di milioni di euro che, pezzo dopo pezzo, la magistratura tenta di recuperare. Adesso nell’orbita della famiglia entra anche un altro luogo della movida catanese: la discoteca Vecchia dogana, a cui sarebbe stato imposto il servizio di sicurezza. Dopo qualche tempo, però, il rapporto si fa più profondo: una relazione personale tra la moglie del gestore e Rosario rinsalda i legami e lei finisce indagata per intestazione fittizia.
Chi non aveva mai avuto problemi con la giustizia legati alla sua famiglia, finora, era il secondogenito Filippo, alias Andrea Zeta. Trentadue anni, occhi azzurri, uno stuolo di fan sfegatate e un curriculum di tutto rispetto nell’ambito della musica neomelodica. Una fama consacrata dalla collaborazione con Gianni Celeste, nel remake del famosissimo brano Senza te nun pozz sta’. Con il piglio di chi è sicuro del fatto suo, Andrea Zeta ci teneva a lasciare il padre fuori da ogni discussione sulla sua carriera: a questa testata è bastato citare la sua parentela per ritrovarsi costretta a denunciare offese e minacce alla polizia postale di Catania, a gennaio 2018. «Pezzi di merda, avete usato il mio nome senza alcun diritto, vi farò passare i guai», scriveva. Da allora la sua strada artistica è continuata: concerti nei palasport, un tutto esaurito rapidissimo al teatro Metropolitan (evento organizzato dal consigliere comunale di Misterbianco Riccardo La Spina), perfino visite a bambini, suoi fan, in ospedale. Cose alle quali riusciva a sommare, per i magistrati, il lavoro per conto del padre detenuto. Del quale avrebbe portato avanti gli interessi a Catania. L’accusa è di associazione mafiosa.