Trattativa Stato-mafia 2/ Al grande ballo della Corda Frates

Per lungo tempo le fittissime reti di relazioni e contiguità trasversali si sono tessute all’interno delle logge massoniche più o meno spurie e nel “circolo culturale” Corda Fratres, l’officina che ha forgiato l’élite politica, sociale, economica e amministrativa locale. Della Fédération Internazionale des Etudiants Corda Fratres Consulat de Barcellona (questo il nome ufficiale) sono stati soci e dirigenti giudici, avvocati, insigni giuristi, poeti, scrittori, artisti, giornalisti, diplomatici, militari, liberi professionisti, parlamentari, sindaci, consiglieri provinciali e comunali. E un buon numero di frammassoni.

Su 36 iscritti, nel 1994, alla loggia Fratelli Bandiera del Grande Oriente d’Italia, ben 14 erano soci Corda Fratres. Tra i cordafratrini “onorari” pure due uomini di vertice dei Carabinieri, i generali Sergio Siracusa (già direttore del Sismi ed ex comandante dell’Arma) e Giuseppe Siracusano (tessera n. 1607 della P2), indicato dalla relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori sulla superloggia atlantica come “fedelissimo di Gelli da antica data”. Stelle di prima grandezza del panorama politico-culturale nazionale i partecipanti ai convegni della Corda. Compreso il vicecapo Dap Francesco Di Maggio, relatore all’incontro su Principio di legalità e carcerazione preventiva, anno 1994.

Nel circolo di Barcellona pure certe presenze e frequentazioni perlomeno imbarazzanti. Come quella del mafioso Giuseppe Gullotti, condannato in via definitiva quale mandante dell’omicidio di Beppe Alfano. Gullotti è stato membro del direttivo di Corda Fratres nel 1989 e socio fino all’autunno del 1993, quando fu “allontanato” a seguito dei pesanti rilievi fatti dalla Commissione parlamentare antimafia in visita nella città del Longano. “Venne ordinato uomo d’onore nel 1991, per intercessione del vecchio boss di San Mauro Castelverde, Giuseppe Farinella”, ha raccontato Giovanni Brusca. (a destra, foto tratta da goilombardia.i)

“Sempre il Gullotti si sarebbe dovuto occupare di reperire l’esplosivo necessario per l’attentato che venne progettato tra il ’92 e il ’93 contro il leader del Partito socialista, Claudio Martelli, attraverso l’interessamento e la mediazione del clan di Nitto Santapaola”. Deponendo al processo Mare Nostrum contro le cosche della provincia di Messina, lo stesso Brusca ha dichiarato che il telecomando da lui adoperato per la realizzazione della strage di Capaci gli era stato materialmente consegnato poco prima proprio da Gullotti. L’assegnazione al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca, sarebbe stata patrocinata dal mafioso Pietro Rampulla (originario di Mistretta), l’artificiere del tragico attentato del 23 maggio ‘92 contro il giudice Falcone.

“Anch’io avevo rapporti con Gullotti”, ha raccontato nel giugno del 1999 il controverso collaboratore Luigi Sparacio, già a capo della criminalità messinese. “Mi era stato presentato da Michelangelo Alfano come persona vicina a Cosa nostra, e in tale ambito fornii al predetto uno-due telecomandi da utilizzare per attentati e che erano stati per me realizzati su commissione, da un dipendente dell’Arsenale militare di Messina…”.

Nome ancora più indigesto dell’albo-soci di Corda Frates, quello di Rosario Pio Cattafi (nella foto a sinistra, tratta da francobollitematici.it), professione avvocato, ritenuto il capo dei capi della mafia barcellonese. “Numerosi collaboratori di giustizia, tra i quali spiccano Angelo Epaminonda e Maurizio Avola hanno indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti operazioni finanziarie illecite e di numerosi traffici di armi, in cui sono emersi gli interessi di importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono”, hanno scritto i giudici di Messina nell’ordinanza del luglio 2000 che ha imposto al Cattafi l’obbligo di soggiorno nel Comune di Barcellona per la durata di cinque anni.

Da giovanissimo egli aveva militato nelle file della destra eversiva rendendosi protagonista nell’ambiente universitario messinese di alcuni pestaggi (unitamente all’allora ordinovista Pietro Rampulla), risse aggravate, danneggiamento, detenzione illegale di armi. Trasferitosi in Lombardia a metà degli anni ’70, Cattafi fu sospettato di essere stato uno dei capi di una presunta associazione operante a Milano, responsabile del sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto miliardario. All’organizzazione fu anche contestata la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case da gioco per conto delle famiglie mafiose siciliane.

Nel maggio 1984, i presunti appartenenti alla cellula in odor di mafia furono raggiunti da un mandato di cattura firmato dal Pm Francesco Di Maggio. Cattafi, residente in Svizzera, sfuggì all’arresto. Pochi giorni dopo fu però l’autorità giudiziaria locale ad ottenerne l’arresto nell’ambito di un’inchiesta per traffico di stupefacenti. Così il 30 maggio dell’84 Di Maggio raggiunse Cattafi in cella a Bellinzona per un interrogatorio ancora top secret: i verbali furono infatti trattenuti dalle autorità elvetiche. Negli stessi mesi, Angelo Epaminonda riferì ai magistrati (tra cui ancora Francesco Di Maggio) che nel 1983, il Cattafi, per conto del clan Santapaola, gli aveva inutilmente proposto di gestire in società l’attività di cambio-assegni ai giocatori del casinò di St. Vincent. Il fatto tuttavia non fu ritenuto rilevante e il barcellonese venne tenuto fuori dalle inchieste sulla penetrazione mafiosa a Milano.

Di Maggio e Cattafi si sarebbero incrociati pure nel corso delle indagini sull’efferato omicidio del Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia. Lo ha raccontato al Corriere della sera (8 giugno 1995), l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, recentemente condannato in primo grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo contro le organizzazioni mafiose barcellonesi Mare Nostrum.

“Fu Di Maggio ad arrestare Cattafi nell’85 per l’inchiesta sull’omicidio Caccia a Torino. Fu il giudice istruttore ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. Cattafi, in verità, non venne arrestato a seguito dell’assassinio del magistrato, ma fu interrogato in carcere dai pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta. Anche Canali conosceva da lungo tempo Di Maggio. Con il magistrato barcellonese, egli aveva fatto un periodo di tirocinio da uditore a Milano. “Sempre Di Maggio, il cui padre era stato maresciallo dei Carabinieri a Pozzo di Gotto, m’informò, in generale, sulla situazione barcellonese prima di trasferirmi in Sicilia”, ha spiegato Canali.

(Seconda parte/ continua)

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