È attesa per oggi la sentenza della Cassazione per il processo sulla trattativa Stato-mafia. La procura generale ha chiesto un nuovo processo d’Appello per il generale dei carabinieri Mario Mori, per il generale Antonio Subranni e per l’ufficiale dell’arma Giuseppe De Donno, tutti ex Ros. Chiesta anche la conferma dell’assoluzione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, e l’appello bis per una parte delle contestazioni al boss Leoluca Bagarella e ad Antonino Cinà. «A nostro avviso, è necessario annullare la sentenza con rinvio», ha detto il procuratore generale nel corso della requisitoria del 14 aprile. Per il procuratore, infatti, almeno una parte delle prove a supporto della sentenza d’Appello è «desunta indiziariamente» e non dimostra «le accuse oltre ogni ragionevole dubbio».
Con la sentenza di secondo grado, la Corte d’Assise d’appello di Palermo, nel 2021, aveva assolto «perché il fatto non è reato», oltre al generale Mori, anche Dell’Utri, Subranni e De Donno. Per il boss corleonese Bagarella la pena era stata ridotta a 27 anni, mentre per Cinà erano stati confermati 12 anni di condanna. In primo grado, erano stati condannati a 28 anni di carcere Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e a otto anni De Donno. In particolare, la procura generale ha chiesto «l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi», perché la sentenza sviluppa la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo e lo fa solo in modo «congetturale. All’esigenza di certezza processuale, la sentenza fornisce una risposta non conforme al diritto e difettosa sul piano motivazionale», ha proseguito il procuratore generale.
Inoltre, «il percorso logico seguito dalla corte si nutre di alcuni elementi viziati» e, secondo l’accusa, «non può non convenirsi con la difesa sul fatto che la sentenza si affidi a una serie elementi carenti dei requisiti di gravità e precisione». «Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa e confutata l’ipotesi che essi abbiano agitato per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico – avevano scritto i giudici della Corte d’Assise d’Appello nelle quasi 3000 pagine di motivazioni -, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che crea le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato».
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