La mancata cattura del capomafia nel 1993 occupa un capitolo delle motivazioni depositate dai giudici di Palermo. Dietro ai fatti in provincia di Messina potrebbe esserci stata la volontà di continuare ad accreditare la prosecuzione della «strategia intrapresa»
Trattativa, nella sentenza blitz fallito contro Santapaola «Forte sospetto» che il boss dovesse scappare indenne
Benedetto Santapaola poteva essere arrestato il 6 aprile 1993 a Terme Vigliatore, in provincia di Messina, anziché il 18 maggio dello stesso anno nelle campagne di Mazzarrone. Ma a fare saltare tutto ci fu un blitz pieno di «anomalie inspiegabili» portato avanti dal Reparto operativo speciale dei carabinieri guidato dall’allora colonnello Mario Mori. Un lungo capitolo sulla mancata cattura del capo della mafia catanese è stato messo nero su bianco dai giudici della seconda sezione della corte d’assise di Palermo nelle motivazioni sul processo Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Un documento depositato ieri, nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio, in cui i togati ripercorrono tutta la storia che ha contraddistinto il faccia a faccia tra mafia e istituzioni. Sono due i blitz falliti che vengono messi sullo stesso piano, entrambi condotti dal Ros e con la regia di Mori. Da un lato quello che doveva servire contro Bernardo Provenzano, il 31 ottobre 1995 a Mezzojuso; e, dall’altro, quello che riguarda Nitto Santapaola.
Nei primi mesi del 1993 gli investigatori captano una voce in provincia di Messina. Ci vuole un po’ di tempo per identificarla ma presto i dubbi diventano certezze. Quell’uomo che parla in dialetto catanese stretto, e che tutti chiamano zio Filippo, in realtà è il super-latitante di Cosa nostra a Catania. La sicurezza arriva grazie a un confidente delle forze dell’ordine a cui viene fatto ascoltare un pezzo di audio. «Lo avete preso?», è la prima cosa che domanda l’uomo dopo avere sentito la voce di Santapaola. Quella stessa sera, il 5 aprile 1993, i nastri registrano un nuovo dialogo e Giuseppe Scibilia, ex maresciallo dell’anticrimine di Messina, informa Mori della presenza del latitante a Terme Vigliatore. Il vertice del Ros però non fornisce nessuna disposizione e il carabinieri desume che la palla sia passata in mano ai vertici dell’Arma. Quello individuato però non è il covo in cui si nasconde il boss. Ma un immobile, gli uffici della pescheria di Domenico Orifici in via Verdi 7, dove Santapaola si è recato in più occasioni a partire da marzo. Il 6 aprile 1993 Mori vola a Catania ma l’arresto del capomafia non si concretizza.
A Terme Vigliatore entrano in scena anche Sergio De Caprio, meglio noto come il capitano Ultimo che arrestò Totò Riina, e Giuseppe De Donno, anche lui nei carabinieri e condannato in primo grado nel processo Trattativa a otto anni (12 quelli per Mori, ndr). Secondo i due uomini delle istituzioni il loro passaggio da Terme Vigliatore sarebbe soltanto frutto di casualità. Di rientro da Palermo, dopo una riunione di lavoro, decidono di spostarsi verso Terme Vigliatore perché qualcuno tra i colleghi nota all’interno di una macchina un uomo somigliante al boss Pietro Aglieri. La presenza casuale di De Caprio e De Donno in quella zona della Sicilia, scrivono i giudici nelle motivazioni, «offende l’intelligenza di chiunque legga le risultanze probatorie acquisite». Il riferimento è a quanto avviene quel giorno. Perché quell’uomo che sembra Aglieri, e che viene inseguito dai militari con delle auto civetta, è in realtà il 19enne Fortunato Imbesi, giovane imprenditore incensurato. Il ragazzo ha solo una sfortuna: quella di vivere in via Verdi, la stessa arteria in cui era stata captata la voce di Santapaola. Imbesi viene bloccato, a quanto pare senza che nessuno gli mostri un distintivo, dopo un conflitto a fuoco e, contestualmente, viene fatto un blitz all’interno dell’abitazione del padre Mario Salvatore. Sembra tutto chiaro: il Ros voleva arrestare Santapaola ma l’operazione è un buco nell’acqua con tanto di clamorosi errori.
«Si è innescata l’inspiegabile condotta dei protagonisti di quell’azione – si continua a leggere nella sentenza – i quali, non sono hanno negato di essere intenzionati ad arrestare Santapaola ma hanno iniziato un’azione di sostanziale depistaggio nascondendo le risultanze della presenza di Santapaola in quei luoghi». Un quadro a tinte fosche che «alimenta il fortissimo sospetto di un’azione volutamente diretta a far sì che Santapaola potesse allontanarsi indenne da Terme Vigliatore». I giudici avanzano anche una loro lettura dei fatti sulla condotta dell’Arma: «una spiegazione» potrebbe arrivare «dalla volontà di coprire il grave errore di precipitazione nel tentativo di arrivare per primi all’arresto di Santapaola dopo quello di Riina avvenuto nel gennaio 1993». Per i togati il colonnello Mori non avrebbe mai e poi mai digerito un simile insuccesso. Come per la mancata cattura di Provenzano i giudici definiscono i fatti di Terme Vigliatore come una prova neutra che, se da un lato non aggiunge nulla al capo d’accusa di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, cioè quello contestato nel processo Trattativa, dall’altro non inficia la ricostruzione riconducibile, anche in questo caso, agli uomini di Mori in Sicilia. Il tutto, concludono, per «accreditare ulteriormente nel vertice mafioso dell’epoca l’idea dell’utilità della prosecuzione di quella strategia già intrapresa e che sembrava produrre i suoi attesi frutti».