«Malanova», strilla zio Paperone dal suo deposito. E, a un tratto, i pizzi dei grattacieli di Paperopoli sembrano quasi ricordare l’obelisco del Liotro. È la magia resa possibile dall’ultimo numero di Topolino in catanese: un albo speciale dello storico fumetto per celebrare, il 17 gennaio, la Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali. Pubblicato […]
Il Topolino in catanese va in ristampa. Il curatore etneo: «Grande orgoglio, m’a spacchìu ccu tutti»
«Malanova», strilla zio Paperone dal suo deposito. E, a un tratto, i pizzi dei grattacieli di Paperopoli sembrano quasi ricordare l’obelisco del Liotro. È la magia resa possibile dall’ultimo numero di Topolino in catanese: un albo speciale dello storico fumetto per celebrare, il 17 gennaio, la Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali. Pubblicato anche in napoletano, fiorentino e milanese, a curare l’adattamento etneo è stato Salvatore Menza, ricercatore del dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, nel quale – tra le altre discipline – insegna Linguistica generale. «Ci ho messo un mese ed è stato difficilissimo, perché c’erano delle frasi senza soluzione – racconta Menza a MeridioNews – In quei casi, dovevo fermarmi, immaginare la situazione e, se necessario, cambiare completamente la frase». Il numero speciale – dal titolo Zio Paperone e il PdP 6000 – era già esaurito ancora prima di arrivare in edicola due giorni fa. Ma mentre i collezionisti setacciano il web alla ricerca di una copia, Panini ha già annunciato la ristampa.
Un evento di costume per il fumetto cult di una generazione, che ha però il merito di avere anche acceso il dibattito sull’importanza e la dignità dei dialetti. «È bello fare vedere che all’università studiamo il catanese e tutti gli altri dialetti della Sicilia – spiega il ricercatore – Quasi nessuno lo sa, ma esiste anche un vocabolario di siciliano, in cinque volumi e lungo migliaia di pagine, nato dalla collaborazione tra l’ateneo di Catania e quello di Palermo. Sarebbe bello se tutti i siciliani ne avessero in casa una copia». Menza, che una parte di questo vocabolario l’ha anche scritta, lo ha consultato per il suo lavoro sul volume di Topolino. Con un obiettivo chiaro: «Far ritrovare ai catanesi le stesse parole delle loro comitive di amici, delle loro mamme, dei loro papà – racconta il docente – Volevo che fosse il catanese che stamattina ho sentito al supermercato, perché il dialetto si parla ancora: magari non come prima, ma è presente nei luoghi di lavoro, al mercato e tra la gente».
Un serio lavoro di studio, ma senza dimenticare la spensieratezza e la risata intelligente che sono le cifre di Topolino. «Volevo anche far ridere e ho cercato di ispirarmi allo stile dei dischi anni Settanta di Tuccio Musumeci. Un uso non volgare del dialetto, anche se la tentazione di mettere parolacce in alcune frasi c’era – racconta Menza, sorridendo – Perché il dialetto è la lingua della quotidianità… Ma ho trovato delle soluzioni alternative». Sostituzioni non sempre facili da trovare restando fedeli all’impressione da suscitare nel lettore. E che il ricercatore testava in famiglia: «Se si mettevano a ridere, vuol dire che ci avevo azzeccato – continua il docente – Come quando dovevo far dire in catanese a un robot “minaccia rilevata” e “minaccia neutralizzata”: la cosa più difficile che mi sia capitata». Diventati come per magia “attia, cchi sta fannu?” (ehi, tu, cosa stai facendo?, ndr) e “dilinquenti sistimatu” (delinquente reso inoffensivo, ndr). «L’italiano è una lingua di alta elaborazione – aggiunge il curatore – come lo stesso Topolino che, con la sua ricchezza lessicale, non è mai stato solo una roba per bambini, ma un vero mezzo per apprendere la lingua».
Alla lettura delle prime tavole in catanese, Menza ha provato un grande orgoglio. Anzi, «parlando in siciliano, m’a spacchìu ccu tutti (me la vanto con tutti, ndr)», ride di nuovo il ricercatore. Che pure ci tiene a sottolineare un passaggio importante: «È scorretto parlare del siciliano come lingua, perché esistono tantissimi dialetti all’interno dell’Isola, ciascuno con la propria identità e parlati, proprio come il catanese, con senso di appartenenza». Non più una minaccia o un ostacolo all’italiano standard, come invece era percepito tempo fa, «quando i genitori riprendevano un figlio che parlava in dialetto, spingendolo a esprimersi in italiano – spiega il ricercatore – Una cosa che oggi potremmo sentire dire a dei cittadini migranti per favorire l’inserimento dei loro figli, ma che non è più necessaria per noi. Anzi, parlare il dialetto fa bene, come se fosse una lingua straniera. E, se parli più lingue, il cervello si mantiene più giovane e funziona meglio». Tutte argomentazioni che confermano la linea di Panini di ripetere l’iniziativa di un albo speciale anche con altri dialetti. «E poi a Catania è andato a ruba – conclude Salvatore Menza – anche perché in alcune edicole sono arrivate appena dieci copie. Ci hanno sottovalutati, insomma, nun sanu cu su i cristiani (non sanno con chi hanno a che fare, ndr)».