The Steve Kuhn Trio

      

Un tempo inclemente non ferma il popolo catanese amante del buon jazz. E anche noi non ci facciamo intimidire dagli ultimi strascichi di un inverno che volge ormai al termine e ci presentiamo puntuali per l’inizio del concerto di Steve Kuhn al Teatro Sangiorgi. L’esibizione del musicista newyorchese, spalleggiato da Eddie Gomez al contrabbasso e Billy Drummond alla batteria, si inserisce nella cornice di eventi dell’EtnaFest 2006 che, come di consueto, propone un cartellone davvero ricco di avvenimenti ed estremamente variegato nella proposta. Secondo le intenzioni di Gianni Morelenbaum Gualberto, direttore artistico della sezione musica dell’EtnaFest (ma anche della prestigiosissima stagione milanese “Aperitivo in Concerto”) la manifestazione vuole proporre al suo pubblico una panoramica il più possibile esauriente sulle elaborazioni musicali che caratterizzano la nostra contemporaneità, senza barriere di natura nazionalistica o inutili divismi.

 

Il concerto del jazzista newyorchese si inserisce a pieno titolo in questo contesto. Per anni snobbato dalla critica del suo paese e riscoperto solo in tarda età, Kuhn è, secondo lo stesso Gualberto, un pagina specifica della storia del jazz. Un musicista di straordinaria intensità che ha regalato molta parte della sua vita allo sperimentalismo e che, con la sua bravura ha contribuito a definire l’arte pianistica novecentesca. Lavori come Trance ne sono un vivido esempio. “Kuhn è uno di quei ‘musician musicians’” – continua Gualberto –  “cioè un musicista, ma direi meglio un ‘artigiano’, amato dagli stessi musicisti che, rispetto al pubblico percepiscono l’essenza della sua arte, scevra da tutta quella comunicazione di cui il pubblico ha bisogno quando si trova un artista davanti e che lo rende, in qualche modo, un personaggio”. Tuttavia nonostante l’indiscussa bravura c’è chi ravvisa, per molti versi a torto, un pericolo di estetismo nella musica di Kuhn, legato in particolare a quella sorta di inarrivabile aura che sembra circondarlo durante l’esibizione; quelle sue movenze, il tono della voce, il modo stesso  – per altro estremamente cordiale –  di interagire col suo pubblico viene da alcuni definito “freddo” ma, a ben vedere, esiste una grande differenza nel virtuosismo fine a se stesso rispetto alle performance che Kuhn da anni offre al publico.

 

E l’arte pianistica di Kuhn non può offuscare la possanza dei suoi compagni di palcoscenico. Il portoricano Eddie Gomez è praticamente una leggenda vivente, forte di una solida preparazione accademica ha legato il suo nome alla storia diventando il contrabbassista di Bill Evans e ha suonato con alcuni dei più importanti musicisti del nostro tempo come Sonny Rollins, Pat Metheney e molti altri. Billy Drummond è anch’egli una personalità degna di nota: considerato uno dei batteristi più originali ed inventivi viventi, è figlio d’arte (anche il padre era un batterista) ed ha collaborato con artisti del calibro di J.J. Johnson, James Moody ed Andrew Hill.

 

Il concerto inizia con un po’ di ritardo, si spengono le luci e già dalle prime battute si capisce subito che Gualberto non ci aveva mentito. I tre calcano la scena con una invidiabile sicurezza di chi ha anni di solida esperienza alle spalle incarnando perfettamente quella particolare arte rappresentata dal trio improvvisativo con pianoforte. I musicisti sul palco si guardano, sorridono, condividono con gli spettatori l’istantanea di un’esperienza rendendoli parte di quella complicità che li unisce. E proprio questa complicità nasconde una profonda drammaticità figlia della lezione evansiana che faceva dell’introversione dell’artista una componente imprescindibile per la sua performance sul palco. In fondo, capite bene, il jazz non è semplice musica; eh no, oltre al pentagramma c’è di più. Qui si parla di sentimento, di tensione nel vibrato delle corde o in un rullo di batteria, qui si parla di anima. E l’anima la profondono proprio tutta i tre jazzisti, proponendo al pubblico i pezzi celebri del repertorio jazz ed alcuni composti da loro stessi.

 

Viene quasi da commuoversi quando l’archetto di Gomez si muove sicuro sulle corde del contrabbasso in Love letter to my father, dedicata al padre scomparso. Le sonorità di Kuhn, artista in grado di restituire come pochi la sua intima identità percussiva al pianoforte ma capace anche di un “canto” di raro lirismo, accompagnano un cupo dispiegarsi del suono che la batteria di Drummond provvede poi a stemperare senza però mai diventare invasiva. La scena è tutta per Gomez e gli applausi finali sono scroscianti. Degna di menzione anche Ocean skies, la cui scrittura deriva da un sogno di Kuhn che l’artista è riuscito a raccontare e a trasmettere in musica disegnando le proprie peregrinazioni oniriche con i tasti del suo pianoforte come un acquarello che ha la ricchezza di colori delle ninfee dell’ultimo Monet.


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