Sabato scorso al Premio “Brancati Zafferana” Il poeta Gianni D’Elia, premiato per il volume “I trovatori” e invitato a commentare la situazione politica italiana di questi mesi, non ha avuto dubbi: “Si tratta di un problema di linguaggio.” Voleva dire che, come trenta anni fa, stiamo giocando la partita del cambiamento e della partecipazione […]
Taci, il nemico ti ascolta
Sabato scorso al Premio “Brancati Zafferana” Il poeta Gianni D’Elia, premiato per il volume “I trovatori” e invitato a commentare la situazione politica italiana di questi mesi, non ha avuto dubbi: “Si tratta di un problema di linguaggio.” Voleva dire che, come trenta anni fa, stiamo giocando la partita del cambiamento e della partecipazione popolare genuina sulla scacchiera del lessico. E come trenta anni fa la stiamo perdendo. Allora come oggi, infatti, la società non organizzata in partiti che si preoccupa del benessere del Paese utilizza invettive, parole rabbiose, volgarità.
Ovviamente nessuno mi attirerà mai nella schiera di chi pensa che le espressioni pronunciate da un qualsiasi comico debbano avere più visibilità e suscitare più clamori rispetto alle chiamate alla armi di senatori e ministri o al lessico muscolare ricalcato sugli imperativi illogici dei proclami dello sport, per cui tutto è una liberazione, una discesa in campo, un vinceremo.
Continuo a trovare detestabile questo meccanismo tramite cui la politica e le sue strutture, (come accade per la guerra e le sue strutture) dimostrano la loro terribile capacità di ricondurre ai propri parametri ogni opposizione, non contrastandola, ma semplicemente privandola del proprio senso originario.
Eppure è chiaro, ugualmente, che i comuni cittadini che oggi urlano i vaffa o i giovani che ieri al G8 di Genova dichiararono guerra ad uno Stato che diede pessima prova di sé, non sono sulla giusta strada.
D’Elia suggeriva un sentimento di popolo che al posto di vaffanculo dicesse: “basta!” con lo stesso animo del profeta Elia, consapevole di non essere migliore dei suoi padri.
È una questione di educazione sentimentale, quindi, e forse anche di sottrazione lessicale. Il linguaggio dei sentimenti, infatti, è tanto trascurato quanto più ci si impadronisce di nuove forme espressive. Se la rivoluzione di Grillo è l’uso dei nuovi codici della rete a discapito dell’espressione verbale compiuta e caricata di emozioni e coscienza, allora non siamo di fronte ad una bella novità.
E se la comunicazione non può proprio essere quella dei trovatori e quindi non può essere poetica (ma perché poi?) allora suggerisco di esaminare l’insegnamento stupendo che giunge in questi giorni dalla ex Birmania, dove religiosi e popolazione scendono in strada armati di insegnamenti sacri, in cerca di quella vibrazione che è anche la nostra essenza, quella che gli orientali chiamano OM e che in un una sola sillaba racchiude la forza della creazione. Ma con la
convinzione che non è necessario, oggi come trenta anni fa, il viaggio in India per imparare il silenzio e per non consentire alla violenza di ostacolare i passi dei costruttori di pace.