È il termine più utilizzato in città e adesso lo si ritrova analizzato dal punto di vista semiotico. Il lavoro della studentessa Alessandra Agola ne affronta i svariati usi, partendo dalle scritte sui muri. Spazio anche alla declinazione 800A. «Alla fine sono riuscita pure a dirla in commissione»
Suca all’università, la tesi sulla parola più palermitana «La dicono tutti quanti ma nessuno l’aveva analizzata»
«Suca, come il muschio, vive sui muri anche dopo essersi seccato, quindi per anni e anni aspetta di sbiadire senza mai cancellarsi». La citazione poetica di Fulvio Abbate, lo scrittore palermitano che recentemente ha ripubblicato il suo primo romanzo Zero maggio a Palermo, viene citata a memoria da Alessandra Agola. La studentessa di Alcamo si è da poco laureata al corso di Scienze delle comunicazione per i media e le istituzioni, proprio con una tesi sulla parola più palermitana che esista.
E più trasversale: la usano tutti, dal signore altolocato di via Libertà a quello più scafazzato di via Oreto. La parola ha da tempo trasceso il suo significato prettamente sessuale, per assurgere a intercalare quotidiano (e stra-abusato). Suca è diventato per alcuni un mantra (magari da associare a un quasi romantico suca&love, come fa l’anarchica Anna Farinella), per altri un partito politico (#bastaunsuca, un gioco su Fb che vede coinvolti, tra gli altri, il giornalista Giuseppe Pipitone e il responsabile comunicazione Sinistra Italiana Sicilia Sergio Lima), per altri ancora un graffito con cui tappezzare la città.
Proprio da qui è partito il lavoro di Alessandra, da «svariate passeggiate a Palermo e dalla pagina instagram #sucaforte, curata dal palermitano Giulio Bordonaro (che vive a Milano), che raccoglie i suca sparsi per la Sicilia e per l’italia e per il mondo. Documentandomi ho scoperto che non c’era nulla sullo studio della parola, nè come analisi semiotica nè tantomeno linguistica, e mi è sembrato molto strano perché la si sente dire davvero spessissimo».
Ecco dunque la voglia di un lavoro strutturato per l’Università di Palermo che, oltre a essere materiale di consultazione per docenti e studenti, diventerà presto anche un libro. Come ha reagito il relatore della tesi, il semiologo Dario Mangano, di fronte a una proposta di sicuro curiosa? «Non pensavo neanche di chiedergliela, la mia prima idea era un lavoro sulla street art – racconta Alessandra – poi l’ho buttata lì e l’ho trovato entusiasta. Anche lui mi ha rassicurato che nonostante sia un fenomeno pervasivo non era mai stato affrontato dal punto di vista accademico. Il mio lavoro parte dai muri e dalle scritte che li tappezzano, dalla pagina instagram e dall’analisi dei luoghi e delle forme. E’ una analisi semiotica che spazia molto, che parla di spazi e di passioni».
Il lavoro dunque prende corpo e, nell’assenza di testi di riferimento sullo specifico tema, prende spunto da teorie che poi vengono applicate ai tanti utilizzi della parola suca. Ma quali sono state le reazioni all’interno del mondo accademico? «A un certo punto si temeva il peggio – ride Alessandra – quando ho cominciato a lavorare sono venuti fuori tutti i dubbi: come la affronto una commissione che deve giudicarmi nel momento più importante della mia vita? Non potevo tirarmi indietro ma ho visto che il mio lavoro valeva qualcosa. Non sono arrivata ai livelli di Umberto Eco ma comunque relatore e correlatore hanno dato un bel parere».
Un lavoro insomma serio e rigoroso, nonostante la parola teoricamente scabrosa (in un luogo e in un momento formale) e che nell’esposizione durante la commissione non è mai sfociata in cazzeggio. La tesi si intitola S-word. Segni urbani e writing: dunque la parola Suca non compare, almeno nel titolo. Perchè questa scelta? «Io la volevo mettere ma il relatore ha preferito una citazione di un autore inglese – spiega la neolaureata -: è una sorta di autocensura, per fare concentrare il lettore non tanto sulla parolaccia quanto su quello che ci stava dietro. Alla fine sono riuscita a dirla in commissione – ride – e devo dire che i docenti, sarà sicuramente per l’argomento, erano attenti. Di solito non ascoltano, e invece in quei lunghissimi 16 minuti li ho avuti tutti su di me. Anche comunque perchè il lavoro è completo e tocca tanti ambiti e tanti autori».
C’è anche spazio per la declinazione tutta palermitana di 800A. «Io vengo da Alcamo e fino a sei anni fa, quando sono venuta qui, non sapevo neanche che volesse dire – spiega ancora la studentessa -. Così ho scoperto questo messaggio in codice in cui la S si chiude per diventare un 8, la U e la C vengono arrotondate fino a trasformarsi in due zeri e la A rimane. E’ un significante che si appropria del significato, 800A di per se non significa nulla». Un gioco per adepti, come è successo recentemente con «Fiorello in radio che, ospiti Ficarra e Picone, li ha salutati con la parola 800A: tra loro ovviamente si sono compresi, molti ascoltatori non avranno capito».