Un amore sconfinato nei confronti della Sicilia e della sua lingua ha spinto il 26enne Alessandro Saraceno a scrivere una tesi triennale in siciliano. «Se si parla tanto del siciliano ma non si parla in siciliano, che senso ha? Ho deciso di rompere questo muro di gomma – commenta il giovane – restituendo all’isola un documento nella sua lingua, che mancava dal 1555». La ragione di questo vuoto temporale risale alla data riportata, quando Carlo V ha deciso di formare i propri domini stabilendo che la lingua ufficiale della Sicilia fosse l’italiano e non più il siciliano, come in precedenza. «Un torto storico dei nostri antenati – secondo lo studente di Lettere moderne – quello di non aver mai corretto questa forma di sudditanza culturale».
Nella visione attuale, chi si avvicina all’istruzione superiore tende a italianizzarsi. I ceti più bassi, invece, vivono un maggiore isolamento linguistico e quindi conservano il siciliano meglio dei ceti superiori. Al centro di tutto c’è «un pregiudizio sociologico»: non esisterebbe un motivo scientifico per cui il siciliano debba avere qualcosa in meno dell’italiano. Così l’idea di scrivere una tesi in dialetto è nata «per dare il giusto esempio». Per il 26enne, infatti, il pregiudizio si abbatte portando il siciliano nella cultura, nelle istituzioni e nelle scuole. «A tal proposito – evidenzia – c’è una legge del 2011 che controfirma quella del 1999 per cui il siciliano andrebbe insegnato in tutte le scuole di ordine e grado ma come tante altre leggi regionali è rimasta lettera morta».
La tesi è formata da tre parti. L’introduzione consiste in un saggio argomentativo in cui si spiegano le ragioni della traduzione. Nella prima parte, invece, ci si concentra sul parlante tipo siciliano nel web, la percezione che esso ha della sua lingua e che rapporto intrattiene nei gruppi con gli altri siculofoni. Nella seconda parte si punta alle istituzioni che studiano il siciliano, come nel caso dell’Accademia siciliana, attenta alla questione ortografica. Si discute anche di Wikipedia in siciliano. La terza e ultima parte si focalizza sulla lessicologia storica: viene riportato uno studio sulla modernità in cui si citano precedenti storici come i primi dizionari nel Cinquecento e si evidenzia l’evoluzione di diversi lemmi.
La tesi segue uno schema che si struttura secondo un’alternanza di esempio e analisi. Lo strumento usato per le indagini sono i social, da cui sono stati prelevati dei campioni poi analizzati. «L’obiettivo – spiega Saraceno – è quello di curare il siciliano anche da un punto di vista estetico e stilistico, non influenzato dalle varie sfumature linguistiche locali: un siciliano standard per così dire». Quanto elencato è racchiuso in una cinquantina di pagine complessive, che verranno discusse in una delle sessioni di laurea del dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, a inizio 2024.
Come incipit, fa sapere Saraceno – di Augusta ma ormai catanese d’adozione – verrà inserito un verso siciliano del poeta Antonio Veneziano: «Perché io che sono siciliano dovrei fare il pappagallo per una lingua di altri?». Un riferimento implicito alla lingua di altri che sarebbe l’italiano, spesso parlato con ostinazione dai siciliani. La lingua locale, invece, passa in secondo piano. E l’obiettivo di Alessandro Saraceno, seguito dal suo relatore Salvatore Arcidiacono, professore di Filologia romanza nella facoltà di Lettere moderne, è proprio quello di accendere i riflettori sul siciliano.
Nella foto di copertina il 26enne indica con la mano il numero tre, il saluto sicilianista. Un collegamento al Vespro siciliano. Tre come gli angoli della Sicilia e le sillabe di Antudo: Animus Tuus Dominus, tradotto, il coraggio sia il tuo solo padrone.
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