Stranizza d’amuri, la recensione della psicologa: «Ancora terribilmente attuale»

Ospitiamo la recensione ragionata del film Stranizza d’amuri, scritta da Antonietta Germanotta, psicologa e psicoterapeuta catanese.

Stranizza d’amuri, già titolo di uno meraviglioso brano di Franco Battiato in dialetto siciliano, diretto da Giuseppe Fiorello racconta l’incontro-scontro tra Nino e Gianni, due giovani che si conoscono per caso ma si iniziano ad amare per scelta. Le famiglie d’origine dei due giovani sono molto diverse: Nino appartiene a una famiglia allargata, in cui vige l’amore, vive in campagna e sembrerebbe non avere pensieri. La vita di Gianni, invece, è del tutto opposta: malinconica, cupa e opprimente; vive in un paesino con la madre e il patrigno che, pur avendogli concesso un lavoro in officina, non perde occasione per disprezzarlo. I ragazzi del bar sotto casa lo importunano; Gianni non ha spazio, è assoggettato a loro ed è schiacciato tra casa, officina e bar. L’incidente con Nino stravolge la sua esistenza: rappresenta un’occasione di libertà e indipendenza economica e soprattutto diventa amore.

Il film si apre con una battuta di caccia al coniglio. «Non ti scantare (Non ti spaventare, ndrfrase che sembrerebbe una rassicurazione ma somiglia più a una sorta di minaccia velata – ripete lo zio di Nino armato di lupara per mantenere il proprio successore sulla retta via. Durante le due ore e 20 minuti circa, il tempo appare a tratti fugace e in altri dilatato. «Il film dura tanto», ho sentito dire ai più. A mio avviso è stato molto scorrevole; le cicale riempiono, e impregnano, l’aria calda dell’estate che divenne tragicamente importante nella storia del movimento di liberazione omosessuale italiano poiché portò alla fondazione del primo circolo Arcigay. Stranizza d’amuri è, chiaramente, ispirato alla terribile storia vera del delitto di Giarre (tutt’ora irrisolto) e il titolo rappresenterebbe un omaggio a Franco Battiato (nato proprio in quella terra, all’epoca Ionia, successivamente suddivisa in due: Giarre e Riposto, separate solo dai binari ferroviari, dove passa a litturina) la cui musica fa da colonna sonora al racconto. Le riprese si sono svolte tra Noto, Marzamemi, Pachino, Portopalo, Ferla, Buscemi e Priolo Gargallo.

Nel film, mentre le televisioni a colori riunivano a famigghia (magari anche chi si sentiva distante ed estraneo a casa propria) e gli azzurri iniziavano la cavalcata verso la vittoria, Nino e Gianni incontrandosi casualmente (o per destino?) tra i campi assolati della Sicilia, tra fuochi d’artificio, bagni al fiume, corse in sella a un rumoroso ma caloroso Ciao, scopriranno e capiranno a proprie spese cosa significhi amare. «Ci l’hai i cugghiuna o si na fimminedda?» (letteralmente: Ce li hai i coglioni o sei una femminuccia?; in senso figurato: Ne hai coraggio o no?). Come se per essere masculu (maschio in siciliano) bisognasse per forza avere il coraggio di fare cose che magari non si vuol fare (come sparare a un coniglio). Chissà cosa prova chi si sente reiterare queste domande, come se si dovesse sempre dimostrare di essere in grado, capaci, all’altezza per non deludere le aspettative altrui. Non avviene solo nel film ma nella realtà.

«Ci muncemu na lumia? (Ci spremiamo un limone?)». Non credo sia casuale che la mamma di Nino ponga al figlio questa domanda. Talvolta – purtroppo temo che l’avverbio non sia quello esatto – si utilizza quest’espressione quando si vede o ci si riferisce an puppu, che in dialetto viene usato per dire omosessuale ma, al contempo, indica anche il polpo. Da qui l’idea di spremere un limone. «Puppu co bullu (polpo con il bollo, cioè “omosessuale patentato” da intendersi in senso dispregiativo)», è scritto sotto casa di Gianni, sul muro, nonché di fronte l’officina del patrigno. «Picchì non s’ammazza? (Perché non si ammazza?)», detto dal patrigno di Gianni alla mamma dello stesso. «‘Du fitusu è chiddu ca è (Quell’uomo spregevole è quello che è)». La parola fitusu, è un appellativo che qualifica in modo negativo una persona denotando che la stessa è priva di onore, una persona che tradisce la buonafede; deriva da fetu, puzza in italiano. «A me quelli come lui fanno schifo!», deve dire Nino in occasione del suo processo per sottrarsi all’interrogatorio violento da parte di padre e zio al solo sospetto di una possibile omosessualità.

Quelle evidenziate in neretto sono solo frasi? No! Sono coltelli, sono lame taglienti che conficcandosi nella profondità della parte emotiva generano ferite che faticano a rimarginarsi. Chissà in quanti si domandano che risonanze abbia tutto ciò in un adolescente (e non solo in un adolescente). Rifletto su quanto dolore causi tutto ciò. Una sofferenza lancinante, perturbante, pervasiva e profonda; sentirsi sbagliati, non capiti, fuori posto, diversi nel senso più devastante e totalizzante che esista. Ci si sente sbagliati e in colpa; ma alla fine che colpa avevano? Nessuna! Non è una colpa se un ragazzo ama un altro ragazzo. Non è (non dovrebbe esserlo) una vergogna e, soprattutto, non è una malattia. La comunità scientifica arrivò alla prima derubricazione dell’omosessualità dai codici di patologia nel 1973; in quell’anno, il 17 dicembre infatti, l’American Psychiatric Association (Apa) rimosse l’omosessualità dalla lista delle patologie mentali incluse nel manuale diagnostico delle malattie mentali (Dsm) e diede inizio a un processo di modifica che avrebbe coinvolto altre realtà.

Il 17 maggio del 1990 si ottenne, dall’organizzazione mondiale della Sanità (Oms), finalmente la cancellazione dell’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali e si ebbe la definizione di «una variante naturale del comportamento umano». Il 17 maggio, infatti, in Europa, si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia; tale data rappresenta un ulteriore momento di riflessione e azione per denunciare e lottare contro ogni forma di violenza morale, fisica o simbolica legata al proprio orientamento sessuale. Mi piacerebbe che questo film (che può piacere o meno) possa servire anche solo un po’ a sensibilizzare, far riflettere ed empatizzare con chi indossa delle vesti che sono scomode e, nel 2023, non dovrebbero essere rese così strette dalla società, dalla paura di essere giudicati, criticati, denigrati, di non essere amati più come prima dai propri cari o addirittura dal terrore di essere disconosciuti. Nonostante la storia cui si ispira il film risale a 43 anni fa – ahimè e ahinoi – è ancora terribilmente attuale.

Quant’era difficile crescere in una cultura patriarcale e quanto è, tutt’ora, terribilmente doloroso vivere all’interno di una società che troppe volte non accetta, non accoglie, non comprende, non empatizza con chi ha solo un orientamento sessuale che comporta l’attrazione emozionale, romantica e sessuale verso individui dello stesso sesso. Durante la caccia della scena iniziale, si sente «Talè» (in alcuni dialetti siciliani, «Guarda»). La parola mi rimanda alle talee, cioè le parti delle piante che, staccate e messe a dimora, emettono radici e fanno germogliare una nuova piantina. Mi piace concludere con l’auspicio che grazie a questo film ciascuno possa far germogliare dei pensieri di apertura che vadano a combattere qualsiasi forma di becera omofobia. Mi piacerebbe pensare che seminando conoscenza, racconti di storie vere ed empatia possiamo raccogliere emancipazione per contrastare il razzismo. Nessuno dovrebbe sentirsi incompreso, solo, sbagliato e guasto oggi e sempre; siamo nel 2023 non nel 1980.


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