Concorso in calunnia. Con questa motivazione il giudice delle indagini preliminari di Caltanissetta Graziano Luparello ha disposto il rinvio a giudizio per tre poliziotti, accusati di aver costruito il falso pentito Vincenzo Scarantino, in quello che recentemente i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta hanno definito «uno dei più gravi depistaggi della storia italiana». Si tratta di Mario Bo, all’epoca dirigente del pool che coordinò gli accertamenti sulla strage del 19 luglio del 1992 in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino, e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Secondo l’accusa i tre avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato di Cosa nostra e costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. Un processo che vedrà la prima udienza il 5 novembre nel capoluogo nisseno. E che vede la luce all’indomani della sentenza del Borsellino quater, con la quale si tornò (anche) a ribadire la vicenda dei falsi pentiti. Manovrati da pezzi dello Stato e in special modo dal pool guidato dall’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. «Una pluralità di dichiarazioni – scrissero in quella occasione i giudici – in esecuzione di un medesimo disegno criminoso».
In particolare fu Vincenzo Scarantino ad accusare – falsamente, secondo i magistrati – Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Tutti condannati all’ergastolo per aver partecipato, a vario titolo, alle fasi preparatorie ed esecutive dell’attentato di via D’Amelio. E poi scagionati. Mentre un altro pentito, Francesco Andriotta, puntava il dito contro lo stesso Scarantino e le prime tre persone da lui indicate (Profeta, Scotto e Cosimo). Ma chi avrebbe imbeccato quell’improbabile mafioso, in realtà poco più che un malandrino?
Ad avere ideato il piano, secondo i giudici, era Arnaldo La Barbera, definito il superpoliziotto e nel frattempo morto. Bo avrebbe avuto il ruolo del comprimario, Ribaudo e Mattei sarebbero stati esecutori materiali. Chiamato a deporre nel processo, Mario Bo si era già avvalso, nel novembre del 2013, della facoltà di non rispondere. Mentre La Barbera aveva scelto di parlare davanti alle domande dei giudici a dicembre del 2013. Già nel 1995, in una trasmissione tv, Vincenzo Scarantino aveva affermato di essere stato costretto a mentire, sotto tortura e minacce. Ciò avveniva ad appena tre anni dall’omicidio di Borsellino e dei cinque agenti della scorta. Ora, a distanza di 26 anni dalla strage di via D’Amelio, un nuovo capitolo che potrebbe far luce sui molti aspetti rimasti oscuri.
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