«Falcone, ma anche i giornalisti, dovevano morire perché la strategia era di allontanare l’oppressione dalla Sicilia. Creare casini al centro, al nord, portare l’attenzione sui brigatisti». È questo che sente Francesco Geraci. È il 1992 e a fare quei discorsi sarebbero Matteo Messina Denaro e alcuni mafiosi palermitani, insieme a un uomo calabrese che viveva a Roma, Antonio Scarano, forse vicino alla banda della Magliana. Questo il motivo alla base delle stragi da compiere proprio nella Capitale. A raccontarlo è il collaboratore di giustizia Francesco Geraci, sentito a Caltanissetta nel processo d’appello Capaci bis che vede imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Prima del viaggio a Roma, il gruppo si incontra in due occasioni: una prima volta a Mazara del Vallo, dove oltre a Geraci e Messina Denaro ci sarebbe anche il mafioso Vincenzo Sinacori. È con lui che Geraci arriva in una casa di campagna piena di armi: «Erano tutte sporche, dovevano essere pulite e lubrificate e portare a Roma».
Le armi che arrivano nella Capitale per gli attentati sono proprio quelle che Geraci vede a Mazara: «A Roma non ricordo poi di averle riviste, ma sentivo Antonio Scarano che diceva “Matteo sono qua a casa mia”, non so dove le teneva, in una stanzetta, diceva che le aveva lui ma io non le vidi. C’erano dei kalashnikov, li avevano provati Messina Denaro e Sinacori sparando nelle miniere in disuso, poi c’erano quattro pistole che aveva comprato Matteo, c’erano tantissime armi, eh. Matteo ha comprato centinaia di armi nuove e poi le ha date a Giuseppe Fontana, 500milioni di armi almeno, poi le hanno seppellite. Poi a Palermo un certo GiovaBattista Ferrante aveva dato a Matteo un fagotto con delle armi e alcuni detonatori, ricordo che mi diceva di camminare piano con l’auto». Il secondo incontro prima del viaggio avviene a Palermo: «C’era una riunione dove c’era un grosso supermercato, c’era una stradina che portava in questa casa, non so come si chiama la via, ma io non ho assistito – spiega -. C’era Matteo Messina Denaro, Lorenzo Tinnirello, Salvatore Biondo, mi pare uno dei Graviano, Enzo Sinacori, magari mi sfugge qualche nome, sono passati degli anni. Hanno fatto questa riunione e hanno deciso la partenza per Roma, quando hanno finito Messina Denaro mi ha detto di prepararmi per questa partenza».
«Io ero rimasto fuori e non avevo assistito perché io non contavo come loro, Messina Denaro mi disse che a quelle riunioni non potevano partecipare nemmeno certi mafiosi. Ma che io ero più importante, in un certo senso, perché a dispetto di certi mafiosi sapevo che c’erano in programma quelle stragi a Roma, mi volevano per convenienza. Io all’epoca ero incensurato e avevo il porto d’armi, camminavo abitualmente armato». Geraci, infatti, non è esattamente un uomo d’onore. «Ero una persona riservata, più importante di un uomo d’onore, mi dicevano. Facevo il grossista di oreficeria, mi facevano tantissime rapine, anche con sequestro di persona, allora mi sono rivolto a Messina Denaro per avere protezione, mettendomi a sua diposizione. E da lì non mi è più successo niente. Da lì però è cominciato il calvario…mi hanno fatto sparare pure a una persona che è morta, mi facevano cercare sempre, è stata la rovina della mia vita», racconta Geraci, arrestato nel ’94 e collaboratore dal ‘96. «Messina Denaro lo conoscevo da tempo, giocavamo assieme da bambini ed eravamo vicini di casa, stava a 200 metri da me a Castelvetrano. Mi dicevano tutto loro – torna a dire, ripercorrendo il suo ingresso in Cosa nostra -, mi accompagnavano, decidevano il tutto, io avevo un ruolo d’appoggio. Poi Messina Denaro si diede latitante intorno all’ottobre-novembre ’92. La prima casa in cui si nasconde è a Castelvetrano, poi da lì va latitante a Palermo, nella zona di Brancaccio, dove ci sono i Graviano, io ci sono andato due volte in questo posto qua, ma i Graviano li ho conosciuti molto prima». Esattamente nella zona balneare di Selinunte, dove a suo dire Messina Denaro si adoperava per fare trovare loro delle villette, «i Graviano venivano con le rispettive ragazze, in quell’occasione li ho conosciuti, perché si dovevano trovare delle case per loro».
Dopo le riunione, il viaggio per Roma è deciso. Geraci si avvia insieme a Sinacori, «perché eravamo tutti e due persone pulite». Messina Denaro arriva con Tinnirello, mentre Graviano con Fifetto Cristofaro. «Io e Sinacori siamo andati in un appartamento che aveva cercato lui, era tutto rotto, senza luci, non c’era niente, non ricordo poi se l’appuntamento era a piazza del Popolo – racconta il pentito -. Poi ci siamo visti con questo Antonio Scarano di Roma, e siamo andati a finire in un’altra casa che ci trovò lui. In quella casa dormivo io e Sinacori in una stanza, Matteo e Tinnirello in un’altra stanza, mentre Graviano e Fifetto sono andati in un altro alloggio, non so dove. Con la mia carta di credito ho preso una macchina, un’utilitaria, forse una Lancia Ypsilon, e abbiamo pedinato Maurizio Costanzo, lo dovevamo fare saltare in aria, non so se era solo lui, cercavamo pure a Santoro, a Pippo Baudo, a Biagi, nella lista ce n’erano più di una-due persone da uccidere da parte della mafia». Mentre Messina Denaro e gli altri avrebbero cercato di intercettare Falcone, andando più volte anche al ministero di Giustizia. «Una volta gli ho sentito parlare pure della Cappella Sistina. Ricordo che andammo in un ristorante, non so se si chiamasse L’amatriciana, una cosa del genere, in un altro dove c’è il Pantheon, poi siamo andati in via Veneto, in un bar, ne abbiamo frequentati diversi».
Geraci e Sinacori trovano anche il tempo, in quei 9 giorni trascorsi in missione a Roma, per fare acquisti in via Condotti. Per il resto del tempo si dedicano ai sopralluoghi e ai pedinamenti: «Il programma di Costanzo si registrava nel pomeriggio e poi andava in onda su Fininvest la sera, noi siamo andati davanti al teatro dei Parioli, so che c’erano andati anche Matteo e Graviano, perché parlavano di mettere il tritolo in un bidone dell’immondizia o mettere una macchina vicino al teatro, se non ricordo male. Quindi anche loro sono andati a fare un sopralluogo», dice oggi Geraci. Quel viaggio però si interrompe bruscamente, senza un nulla di fatto: «Non so se ce lo disse Messina Denaro o Graviano di tornare in Sicilia, uno dei due comunque – continua -. Come al solito non mi hanno spiegato come niente, io ricordo di essere rientrato in nave da Napoli con Sinacori, lì eravamo arrivati col treno se non ricordo male. Ma sono passati tanti anni. Non so se qualcuno rientrò con l’aereo. Ricordo comunque che noi siamo andati a Roma prima della strage di Capaci, ricordo che a Palermo prima di quel viaggio avevo comprato dei vestiti invernali da Alongi, siamo a gennaio-febbraio, diciamo quindi che era febbraio quando siamo andati su a Roma». Oltre al pentito Geraci, oggi avrebbe dovuto testimoniare anche Giovanni Peluso, l’ex poliziotto accusato dal collaboratore Pietro Riggio di aver preso parte alla strage di Capaci. Che, però, non si è presentato e non ha fatto arrivare alcuna giustificazione, quindi alla prossima udienza dovrà essere accompagnato coattivamente.
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